Il 27 aprile iniziava la seconda guerra di indipendenza. I patrioti toscani colsero subito il momento per insorgere, provocare la fuga di Leopoldo II e acquisire il controllo del Granducato. Poche settimane dopo avrebbero abbandonato i loro Stati anche la duchessa di Parma e il duca di Modena. Intanto gli eventi militari volgevano a favore dell’esercito franco-piemontese, che l’8 giugno conquistava Milano. A sua volta, Giuseppe Garibaldi raggiungeva Como e Brescia con i suoi “Cacciatori delle Alpi”.
In quei giorni di entusiastico fervore il contagio rivoluzionario si estese a molte città dello Stato pontificio. Il 14 giugno 1859 i patrioti di Perugia inviavano una lettera circolare a tutti i centri della provincia, annunciando di aver abbattuto il governo pontificio e chiedendo di aderire all’insurrezione.
La Magistratura tifernate avrebbe ricevuto la circolare il 16 giugno. Allora la diligenza effettuava il servizio postale tre giorni alla settimana e impiegava circa otto ore per coprire la distanza tra Perugia e Città di Castello. La mattina del 15 giugno, prima quindi dell’arrivo della circolare, già correvano voci delle sollevazioni avvenute a Bologna e Perugia. Tanto bastò perché si diffondesse una certa eccitazione e si mettessero in moto gli oppositori. Intanto il governatore e la gendarmeria pontifica decidevano di lasciare al più presto la città. Il pomeriggio – così avrebbe riferito la Magistratura, guidata da Vincenzo Pierleoni – “alquanta moltitudine di popolo con coccarde tricolori passeggiava per le pubbliche vie con la Bandiera Italiana, ed avanti la Residenza Governativa, e Municipale, prorompeva in reiterati evviva all’Italia, a Vittorio Emanuele II, a Napoleone III, alla Francia, e più che ad ogni altro alla Guerra della Indipendenza Italiana”. I manifestanti si recarono in “piazza di sotto”, dove era riunita l’amministrazione municipale, e chiesero a gran voce al gonfaloniere e agli altri magistrati di unirsi a loro. Pierleoni – fedelissimo al papa, ma nel contempo preoccupato per le condizioni dell’ordine pubblico – volle prima chiedere consiglio al governatore Pietro Testa. Questi gli confermò che stava partendo e lo pregò di restare in carica “per evitare il gravissimo sconcio della mancanza di ogni autorità legittima”. Quando Pierleoni gli fece presente che, per mantenere l’ordine pubblico, “era inevitabile il cedere in qualche modo ai voti della adunata moltitudine”, il governatore si limitò a raccomandare la prudenza.
Tornati in Comune, mentre “la numerosa popolazione stipata da ogni parte prorompeva più calorosamente negli accennati evviva”, i magistrati cittadini non poterono far altro che permettere “l’inalzamento della Bandiera Nazionale, priva di qualunque segno di rivolta, vicino allo Stemma della santità di Nostro Signore”. Questo è quanto si legge nella relazione di Pierleoni, che ribadiva come tutto si fosse svolto senza incidenti o esplosioni di intolleranza: “[…] dopo di che rinnovatisi per un momento gli applausi si disciolse la moltitudine col più perfetto ordine, e silenzio. Nella sera seguiva quasi generale, e spontanea illuminazione, alternando il Concerto Musicale le sue armonie fra i medesimi applausi surriferiti”.
Il giorno dopo, il funzionario della dogana tifernate avrebbe riferito in modo molto stringato quanto successo a Città di Castello. Affermò che si era fatto “come a Perugia […], portando in giro per la città la bandiera tricolore con molta acclamazione del basso popolo […]”.
Di diverso tenore una relazione del vescovo Letterio Turchi. Cercò di minimizzare la manifestazione popolare, a suo parere promossa da “un pugno di mestatori”, che rappresentavano “solamente un punto microscopico” nell’insieme della popolazione ed erano mossi “dal desiderio di far causa comune con la rivoluzionata Perugia”. Affermò che il gruppo di dimostranti era partito dalla locanda della Cannoniera “accompagnato da otto o dieci monelli”, per poi ingrossarsi man mano che percorreva le vie cittadine. Ma il vescovo scrisse la sua memoria quando le autorità pontificie aveva ripreso il controllo della situazione, con l’intento di tutelare l’immagine dell’“eroico” Pierleoni e di prevenire sanzioni punitive a danno della città. Un tal fine suggeriva di puntare l’indice solo contro i “capi nascosti” di quella manifestazione, pericolosi sovversivi che, dopo aver sobillato la folla, “tutto avrebbero posto a soqquadro, perché di tutto capaci”; meglio dunque cedere qualcosa alle richieste dei dimostranti, pur di sbarrare la strada “al nascosto cerbero, che minacciava l’assalto”.
Per ricostruire i fatti di quel giugno, in mancanza di altra documentazione, sembra pertanto più attendibile la relazione della Magistratura. Il 16 giugno la città rimase senza governatore e senza gendarmi. Per garantire l’ordine pubblico, il gonfaloniere si appellò a personalità autorevoli di diverse idee politiche. L’incarico di formare una specie di guardia civica lo dette a Leovigildo Tommasini Mattiucci, già ufficiale volontario nella prima guerra di indipendenza. Appare quindi chiaro l’intento, ormai che il tricolore era stato inalberato a fianco dello stemma pontificio, di realizzare l’unità cittadina per prevenire ogni perturbamento dell’ordine pubblico in una città priva di governatore e di gendarmi.
Fino al 22 giugno, quando riprese possesso della sua sede il governatore Testa, non successe nulla di rilievo e, nelle parole di Pierleoni, non si segnalò “verun atto, o scritto ostile al Governo di S. Chiesa”. Il governatore si compiacque che la popolazione aveva “da se stessa corretto […] il moto incomposto” del 15 giugno, causa della sua momentanea fuga, e si appellò alla “docilità” dei tifernati, di cui – affermò – aveva avuto costanti prove.
Pochi giorni prima, però, l’“Osservatore del Trasimeno” del 17 giugno 1859 aveva dato notizia dell’adesione anche di Città di Castello all’insurrezione Ciò aveva insinuato nei vertici pontifici provinciali e statali il sospetto che la rivolta si fosse estesa anche a Città di Castello, con la sostanziale connivenza della Magistratura. Di qui i pronti e insistiti interventi del gonfaloniere e del vescovo affinché non venisse travisata la verità dei fatti e si considerasse la città “meritevole della superiore indulgenza” per essersi mantenuta “fermamente salda nella obbedienza al Pontificio Governo”. Si può dedurre che in quel frangente gli oppositori tifernati si accontentarono di veder issato il tricolore in Municipio accanto allo stemma papale.
C’è da dire che a Città di Castello mancavano molti patrioti. Mentre incombeva sulla ribelle Perugia la controffensiva delle truppe pontificie del colonnello Schmid, circa 16 tifernati si recarono nel capoluogo per aiutare gli insorti a resistere. Inoltre le file dei patrioti erano assottigliate dalla partenza di numerosi volontari per il fronte della seconda guerra d’indipendenza. Proprio in quei giorni uno di essi, Attilio Trivelli, nella battaglia di San Martino si guadagnava una medaglia al valor militare e la promozione sul campo: caduti tutti gli ufficiali della sua compagnia, ne assunse come sergente il comando, resistendo con coraggio e perizia all’urto del nemico.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).