A Città di Castello si fabbricavano cappelli di feltro. Nella prima fase di lavorazione, alle pelli scelte per la manifattura si toglievano le impurità e i peli inadatti. Quindi le si strofinavano con una spazzola di cinghiale imbevuta di “acqua di composizione”, nella quale erano stati sciolti del mercurio e agenti corrosivi. Dopo tale trattamento, che predisponeva alla feltratura, le pelli venivano poste in stufe per l’essiccazione. Poi i peli di coniglio venivano tagliati; quelli di lepre strappati. Seguiva l’“accordellamento”, per fare “sfioccare il pelo in velli leggerissimi”. Lo si eseguiva con uno strumento a forma di arco di violino, la cui “corda di budello ben tesa, essendo agitata colla mano, mediante un picciolo pezzo di legno, che dicesi il battitojo”, trasmetteva vibrazioni che facevano sollevare e rimescolare il pelo. Talora la rimescolatura avveniva con l’ausilio di un telaio ligneo attraversato da diverse coppie di corde equidistanti, “che si portava sotto una specie di grande arco da violino appeso al soffitto”: percuotendo con un mazzuolo la corda di budello dell’arco, si produceva lo stesso effetto di scuotimento, sollevamento in volo e rimescolamento di peli. Il processo di feltratura, la formazione di un fittissimo intreccio di peli sovrapposti, procedeva con l’imbastitura, “mediante la quale il pelo era avvolto per strati sottilissimi in tela da imbastire inumidita, in modo da aumentare la forza filtrante dei peli e da favorirne sempre più l’intreccio”. Di tali operazioni si ha traccia in documenti locali che attestano la presenza nelle cappellerie di “paia di cordini […] che un tempo servivano a tirare il pelo”, di “battitori con graticcie sopra cavalletti”, di mazzuoli, di “lamiere di rame” e di “panni” per imbastire, di boccette di mercurio e di “vetriolo di Cipro”.
Il feltro così formato veniva poi modellato in forma di cono e immerso nell’acqua bollente di una caldaia per la “follatura”, che rassodava ulteriormente l’intreccio del tessuto. Si era così pronti per la formatura del cappello; il cono di feltro veniva modellato a mano su apposite “forme” inserite al suo interno. Scriveva il Griselini: “Formato il cappello, e tratto dalla sua forma, si mette ad asciuttare nella stufa, per essere indi pomiciato colla pietra pomice […]. Dopo la pomiciatura, si prende una setola asciutta, che si passa al di sopra, tanto per levare al tutto ciò che la pomice ha distaccato, quanto per ammorbidire l’opera”.
Era quindi giunto il momento della tintura. I cappelli, “montati sulla loro forma di legno”, venivano fatti bollire in capienti caldaie e trattati con una tintura “di legno del Brasile, di noce di galla, di cuperosa, e di verderame”. Poi li si rilavava, li si fregava con una setola di pelo di cinghiale, li si asciugava nella stufa, li si lustrava e, per renderli ancor più consistenti, vi si apponeva della colla con la stessa setola: “Quando il cappello è incollato, lo si adatta sopra una placa di ferro, o di rame, sotto di cui c’è un fornello, ove si accende un mediocre fuoco di carbone […]. Allorché il cappello sia sufficientemente caldo, si batte dolcemente su i suoi orli colla palma della mano per incorporare la colla nel feltro […]”. Seguivano le fasi conclusive di rifinitura e di lustratura.
Anche di queste operazioni portano testimonianza gli sporadici documenti sulle cappellerie tifernati. Illustrano infatti l’esistenza negli opifici di “caldare di rame murate di diversa grandezza”, di “banchetti da caldara”, di “padelloni di ferro per tirare giù il fuoco delle caldare”, di “foconi di ferro” e con “cuffia di lamiera”, di fornelli, di “forme e formini da cappelli”, di banchi e “ferri grossi” per spianarli, di “viti” per allargarli, di ferri da stiro, di “piatti di legno da lustrare”, di “baluarda e palettoni di ottone” per cappelli, di risme di cartone da cappelli; e, inoltre, di pomice, tartaro, gomma “d’albero” e “forestiera”, cerume, feccia di vino, colla, scotano, sommacco, corame, “corbelli di stecca”, “sacchetta di galluzza” e di elementi per la preparazione delle tinture, come “campeggio tritato”, trementina, pece greca e verderame.
Ulteriori dettagli sulla fabbricazione dei cappelli in città sono forniti da un documento di qualche decennio dopo, che comunque fa riferimento ai tradizionali sistemi di lavorazione. Alcuni cappellai, soliti far continuo uso di carbone di faggio “per il riscaldamento de’ ferri da lustrare”, chiesero al Comune l’autorizzazione a “tenere il focone acceso fuori della propria bottega, affinché il gas acido carbonico che si sviluppa dalla combustione non arrechi nocumento alla loro salute”.
Gli estratti dal volume Artigianato e industria a Città di Castello tra ‘800 e ‘900 mancano delle note