Il censimento fiscale del 1851 elenca, distinte, le figure professionali dei bottai e dei “bigonzari”. Tra gli uni, cita Vincenzo Fusciani e Giuseppe Puletti; tra gli altri, Domenico Grassini, di Rignaldello, e Antonio Antimi. Il “bigonzaro” compare raramente nei documenti d’archivio: oltre alla costruzione di bigonci o bigonce, gli si richiedeva di riattarli e di “rimettere doghe e cerchi”.
Sostanzialmente bottaio e “bigonzaro” costituivano un unico ramo dell’artigianato, addetto alla produzione di recipienti di legno “cerchiati e rilegati, propri a contenere dei liquori o delle mercanzie”. Oltre alle botti, fabbricavano bigonce, costruite con doghe e cerchi di legno e di ferro, a sezione ovale, leggermente svasate dal fondo alla bocca e funzionali al trasporto su muli; bigonci, di fattura simile, ma più bassi e più larghi; “bigoncette” per imbottare il vino; mastelli, simili a botti tagliate a metà, con due doghe bucate più lunghe per rendere possibile la presa e il trasporto; tini di ogni sorta, secchi, bagnatoie, salatiere, e infine recipienti per misurare le capacità, come le “coppe” e le “mine”. Le botti avevano varie dimensioni. A mo’ d’esempio, nei primi anni ‘50 dell’Ottocento il conte Pierleoni acquistò un “bottino” della tenuta di 2 barili per baj. 70, un “botticello” da 3 barili per baj. 60, una botte da 10 barili “con 10 cerchi di ferro” per sc. 3 e un’altra di “barili 12 e 6 boccali” per sc. 4.50. Nel 1845 il Seminario pagò alcuni bigonci baj. 35 ciascuno.
Per costruire botti, ricordano gli artigiani, “s’adoprèa ‘l castagno, la cérqua e ‘l móro, a secònda de quél che c’éra”. Per i recipienti si preferiva la quercia, perché meno soggetta a “infragidarsi”. Il castagno doveva essere ben stagionato (“spurghèto”), altrimenti il vino “prendéa de stagnìno”, si anneriva e diventava amarognolo. Per i bigonci si eseguivano anche cerchi di speciale fattura in salice (“salce”), legno facilmente piegabile. Le botti più piccole, spesso fabbricate in campagna da artigiani ambulanti, erano generalmente di ginepro, ciliegio e quercia. La preparazione delle doghe e dei cerchi, la formatura e legatura della botte e il conclusivo lavoro di incastro delle componenti implicavano grande perizia da parte dell’artigiano. Ricorda uno di essi: “Odiavo il vino e le viti per quante botti costruivo e per la fatica che ci voleva. Si partiva dal legno grezzo per fare le doghe; realizzavamo da noi anche i cerchi di ferro. Vi erano botti da 7, 10 e 14 quintali. Per realizzarne una, se era solo, un falegname poteva impiegare anche una settimana. Non erano molti i falegnami che le costruivano.”