Nel 1928 veniva ancora censito un bottaio in città, Francesco Bruscoli, detto “Checco del palaro”. Il “palaro” fabbricava anche i più consueti utensili lignei di uso domestico: pale e “piadinette” da farina, mestoli e posate di legno, ciotole e recipienti per alimenti, pestelli per il sale e taglieri, mattarelli (“rasagnoli”), uova porta aghi per rammendare i calzini e diversi altri manufatti.
Gran parte di questi oggetti veniva ordinariamente prodotta pure dai falegnami di campagna e da quei contadini che sapevano disimpegnarsi con gli attrezzi da falegname e che di solito facevano da sé gli strumenti di lavoro: rastrelli, forconi di legno, pale da forno o da magazzino, scale…
Di non facile esecuzione era il giogo, l’arnese di legno sagomato applicato al collo dei bovini per sottoporli al tiro dei veicoli. Lo si costruiva di duro acero campestre (“oppio”). Per le pale si ricorreva invece al faggio; per le scale al pioppo. Per queste ci voleva infatti “na pianta n pochino dritta”. I pioli (“piòzzi”) delle scale erano di corniolo (“corgnólo”), di ornello (“orgnélo”) e di salice (“salce”).
Manufatto tipico delle campagne altotiberine era la “trèggia”. Questa slitta lignea, trainata abitualmente da due buoi, costituiva il mezzo di trasporto più comune nelle impervie zone montane, prive di vere e proprie strade. La si usava anche in pianura, d’inverno, perché sui campi bagnati le ruote dei carri affondavano. Insomma – era la diffusa considerazione – “senza le trègge n givi nvèle”. Di queste slitte in un podere medio ce ne volevano due piccole, per il trasporto di legname, acqua e concio, e due più grandi, per il fieno e il grano. Il legno preferito era il carpine (“carpino”) rosso, per le “cosce”, quando si trovava; altrimenti la quercia e il cerro, che si usavano pure per la bure (“bura”) e i “piòzzi”. Il “carpino” garantiva una maggiore durata, se seccato. In ogni caso ci voleva legno di pianta “giovina”, stagionato qualche mese dopo il taglio effettuato in estate. Il falegname rurale infatti abbatteva l’albero in agosto, a luna calante (luna “dura” o “bona”), nel rispetto della disciplina di un’ancestrale sapienza: “Se guardèa sempre ma la luna, ma la stagióne sciutta, i giòrni che n c’éra l’èria…” Poi il legno veniva lasciato stagionare almeno fino all’inverno, spesso spezzato, così “s’asciughèa prima”.
La fabbricazione delle tregge avveniva dunque in inverno. La cesta per riporvi il concio o il granturco (“ciovéja”) la si faceva intessendo “bachètte de machia” (fustine di “orgnèlo” e di “vernèllo”) o vinchi (“vènchi”), che però “spiegaccièono”. Un falegname di campagna poteva impiegare anche un solo giorno per costruire una treggia, purché trovasse il materiale già pronto. I principali attrezzi usati non erano che la sega, l’accetta e, per fare i fori, il “guàlatro” o “verrìna”, un rudimentale trapano a mano. Il legno lo si forava quando era ancora verde; se secco lo si lavorava peggio. Si trattava di un’attività faticosa, soprattutto per realizzare gli otto fori nelle “cosce” della treggia. Non si ricorreva nemmeno a un chiodo, vuoi perché costavano, vuoi per permettere all’umidità invernale di “stringere” il legno e tenere compatta la struttura. Per la stessa ragione, quando d’estate la treggia si allentava, i contadini le versavano addosso secchi d’acqua o la lasciavano dentro la “gòrga”. Le tregge duravano poco più di un anno (“quan c’évi fàto na stagióne…, do nne facévono”), a causa del continuo sfregamento del legno su rocce e sassi. Potevano durare di più se utilizzate su superfici meno rudi.
Mentre le spese di acquisto del carro erano a mezzo con il padrone, la treggia e il giogo appartenevano al contadino. Nell’ambiente rurale, inoltre, le famiglie costruivano da sé i canestri, con un’opera di intreccio delle diverse essenze vegetali reperibili nella zona, specie lungo gli argini dei corsi d’acqua: “l vènco, l salce, la sancastra, l sanguinèlo, l’olivèla, i garzèli de castagno, l corgniólo, la ruta, l’invétrica”. Per i canestri da trascinamento si usavano “sanguinèlo” e “olivèla”, perché più duri; per quelli da portare in testa la “sancastra”.