Gli zoccoli costituivano la calzatura più comune della popolazione di campagna e dei ceti urbani meno abbienti. Ancora oggi si ricordano contadini di montagna che, scesi in città per le fiere e i mercati e desiderosi di mostrare un abbigliamento decoroso, appena fuori porta si toglievano gli zoccoli per mettersi le scarpe.
Vi erano esperti zoccolai sia in città che in campagna. Qualche contadino, però, riusciva a costruirseli da sé. Solitamente li faceva in inverno, mentre le donne filavano e tessevano. Ci voleva legno di acero di campo o di macchia, perché resistente ma leggero. Per gli zoccoli dei bambini si usava il fico; per gli “zoccoletti” delle donne il salice.
Chi li faceva nella propria casa tagliava il pezzo di legno occorrente d’estate, “a luna bona”, cioè calante; quindi lo spaccava per farlo “asciugare” e stagionare un po’ (“dovéa asciugàse, perchè éra n pochino umido”). Disegnava la forma del piede sulla parte piallata del legno, quindi lo tagliava con una “cettìna”, una sega, o una roncola ben affilata. Poi dava “n po’ de vérso” alla pianta con l’ascia, così che il piede vi si adagiasse comodamente, e preparava con lo “scarpélo” lo “scanèle” per fissare la tomaia. Dopo aver ripulito la superficie con la carta vetrata, applicava la tomaia di cuoio, presa da vecchie scarpe ormai “sfònde”, cioè dalla suola irrimediabilmente consunta. Infine, per evitare che il legno si consumasse troppo rapidamente, conficcava sul fondo una serie di chiodi a testa larga. Proprio quei chiodi provocavano il caratteristico calpestio degli zoccoli. Talvolta, sempre nell’intento di farli durare di più, ci mettevano sotto della latta o strisce di gomma ricavata dai “gupertóni de le biciglètte”.
Anche in città operavano bravi zoccolai. A San Giacomo c’era Ascani. Si rivolgevano a lui anche quei contadini che non trovavano nei loro paraggi un fabbricante di fiducia: dopo aver dato forma alla pianta, lui ci fissava le tomaie riciclate portategli dai clienti, imbulettandovi attorno una cimosa di zinco o di latta, magari tagliata da barattoli di conserva. Lo soprannominarono “Scotàcia”, perché faceva anche le “scóte”, i manici in legno per zappe, picconi, accette e altri altrezzi.