Mobilio in stile rinascimentale e di moderno disegno prodotto dai falegnami tifernati e dalla Scuola Operaia ed esposto nella Mostra dell’Artigianato del 1937.

Tentativi di rilancio dell’artigianato

Nel 1922, nell’allestire la Mostra Retrospettiva del Ferro Battuto, la Scuola Operaia volle dare spazio anche agli artigiani del legno per promuovere la fragile economia locale nel suo complesso. Solo alcuni degli invitati ebbe­ro modo di poter contribuire con propri manufatti, ma don Enrico Giovagnoli espresse ugualmente la soddisfazione degli organizzatori: “Fra i falegnami incisori e intagliatori non mancano opere meravigliose: il tavolo in­tarsiato dal capo officina della scuola Augusto Pellegrini, elegante e solido nello stesso tem­po, la specchiera ad intaglio del Bartolini, che sa trattare il legno con rara maestria, e vicino a queste maggiori le cornici intarsiate del giovane Bruschi, ingegno versatile che sa ancora fabbricare violini di voce dolcissima, e le pri­me prove dei più giovani maestri di legna­me”. E inoltre: “Oreste Gambuli ha ideato un elegante servizio in legno lucido per the, l’officina Vigna e Amantini degli splendidi mobili in malacca e giunco, una cassa armonica so­bria­mente intarsiata per grammofono”.
In quegli anni di riscoperta dell’artigianato artistico, per i falegnami più ambiziosi potevano rappresentare un significativo pun­to di riferimento le munifiche donazioni di Elia Vol­pi. Il celebre antiquario di origine ti­fernate nel 1912 aveva restaurato a proprie spese e donato alla città il palazzo Vitelli alla Cannoniera, perché ospitasse la locale pinacoteca. Lo ave­va arredato per intero con una delle sue collezioni di mobili d’epoca: seggioloni con braccioli e da parata, sedie “a fratina”, sgabelli, panche e cassapanche, scrittoi “a lira”, tavoli di varia tipologia, consolles, armadi-li­brerie, leggii. Insieme a essi, pregevoli ope­re intagliate e intarsiate provenienti dai conventi cittadini soppressi. All’inizio del No­vecento Volpi era stato tra i principali interpreti a li­vello internazionale di un gusto dell’arredamento, con conseguente mercato antiquario, in cui mobili autentici dei secoli passati convivevano con altri restaurati reimpiegando elementi di diverse epoche e altri an­cora fabbricati più recentemente a imitazione di stili antichi. L’arredamento ligneo della pi­naco­teca di Città di Castello costitui­va un museo nel mu­seo, ancor più valorizzato dall’apertura nello stesso palazzo, nel 1927, del­la sede del­la bi­blioteca comunale. I falegnami che allora partecipavano con maggiore attenzione agli even­ti culturali cittadini non potevano non subire il fascino del mobilio esposto. Ma certamente ne frustrò le ambizioni – così come avvenne per gli artieri del ferro battuto – la modestia del mercato loca­le, nell’ambito del quale la clientela benestante e colta, già di per sé di esigua consistenza, vide ridimensionato il proprio po­tere d’acquisto dai rivolgimenti economico-finanziari del Ventennio. Il gusto del bel mobi­le d’epoca venne tenuto in vita dai migliori fa­legnami e soprattutto dalla Scuola Operaia, il cui laboratorio di ebanisteria, diretto da Au­gusto Pellegrini, nella Mo­stra dell’Artigiana­to del 1937 esibiva ancora pregevole mobilio in “stile Rinascimento”.
Proprio in quella circostanza vennero esposti camere e salotti disegnati nel più in voga “stile Novecento” da due giovani intellettuali tifernati, l’architetto Angelo Baldelli e il pittore Aldo Riguccini. Li fabbricarono la Socie­tà Lavorazione Legnami e Matteo Biagini, le uniche aziende, insieme alla “Cristini”, che te­nevano degli operai e potevano permettersi in qualche modo di proporre alla clientela idee di arredamento nuove e di commerciabilità anco­ra tutta da verificare. Per gli altri falegnami, salvo sporadiche eccezioni, non sembrava es­serci altra prospettiva al di fuori della faticosa e prosaica attività al servizio di committenti pubblici con poche risorse finanziarie a disposizione e clienti privati per lo più poveri e po­co esigenti.