La vicenda di Giuseppe Montani, detto “Puntechiaro”, apre un significativo squarcio sulle condizioni di vita dell’artigianato minuto dell’epoca. Arrivato ai cinquant’anni, aveva avviato al mestiere nella sua bottega solo uno dei cinque figli, Francesco; degli altri, uno era sacerdote, due stavano ancora studiando e l’ultimo, Benigno, a dimostrazione che l’officina famigliare non riusciva a offrire prospettive occupazionali a tutti i maschi, era apprendista fabbro. La vita riservò allora un destino amaro a “Puntechiaro”, che cominciò a manifestare turbe psichiche, divenne inabile al lavoro e lasciò nella miseria la numerosa famiglia, con la moglie per di più “in cagionevolissima salute”. Il parroco ne attestò l’irreprensibile condotta morale: “[…] è stato sempre un uomo di buonissimi costumi, ha sempre atteso con assiduità all’esercizio del suo mestiere, ed è stato costantemente un buon padre di famiglia”. Il dottore diagnosticò un’“irritazione congestiva all’encefalo”, dovuta forse alla “fatica protratta” del lavoro e – tradizionale valvola di sfogo di tanti artigiani prostrati dalle quotidiane fatiche – all’“uso non sempre limitato di liquori”. Finì che il Comune elargì un assegno annuale per il suo mantenimento all’“ospedale dei pazzi” di Perugia. Tra tanta sventura, il figlio Francesco sarebbe stato comunque capace di portare avanti con profitto la bottega.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.