I maniscalchi ferravano gli zoccoli dei cavalli. Negli ultimi anni di Città di Castello pontificia non ne vennero censiti che due in grado di poter pagare la tassa di esercizio; si chiamavano Giuseppe Ravaioli e Alessandro Ruffini, entrambi definiti “braccianti e giornalieri”. Per loro si ipotizzò soltanto una modesta tassa dai 20 ai 40 baiocchi.
Di quali fossero le tariffe dei maniscalchi negli anni ’50 del XIX secolo danno un’idea i Giornali dello Stato Patrimoniale di Florido Pierleoni. Per ogni ferro nuovo applicato agli zoccoli dei suoi cavalli il conte pagò baj. 16; la “mutatura dei 4 piedi del cavallo [con] regalo al ferratore che venne a San Donnino” gli costò baj. 32. In quello stesso periodo gli amministratori dell’azienda agraria del Seminario segnarono la spesa di baj. 15 per la “ferratura della bestia che trasporta le decime”, di baj. 40 per “quattro ferri alla mula di Gustinelli” e di baj. 3 per ogni “mutatura alla cavalla”.
Tra gli anni ’60 e ’70, il conte Pierleoni si servì dei maniscalchi Alessandro Ruffini e Francesco Brizi. Con il primo stabilì un più ampio rapporto di dare e avere: certamente lo riforniva di prodotti alimentari, tanto che a fine anno il possidente si trovava in credito. Quanto a Brizi (1795-1878), ferrava i cavalli in via Sant’Antonio. Dovette far fronte all’ostilità dei vicini, insofferenti del cattivo odore provocato dall’operazione di “abbrucitura di unghie” degli equini che avveniva sotto le loro finestre.
La scarsa documentazione permette di citare solo pochi nomi per i decenni successivi. Il “ferratore di cavalli” Vincenzo Cesaroni, dichiarava il Comune, “va ad esercitare ove è chiamato e non ha alcuna entità”. Una certa importanza doveva avere Agostino Rossi; negli anni ’80 era infatti l’unico incluso nelle liste elettorali della Camera di Commercio. Una nota comunale del 1893 attesta che in città allora non operava che il maniscalco Luigi Menchi.
Alla ferratura di cavalli, all’inizio del ’900, erano dediti a Città di Castello Filippo Materazzi, detto “Gingì”, e il figlio di Luigi Menchi, Marino. Entrambi presentarono i loro manufatti alla Mostra del Ferro Battuto del 1922, dove fu apprezzata una loro “collezione di ferrature di una precisione ed eleganza non comune”. Materazzi, che continuava il mestiere del padre Ercole, aveva bottega in via Santa Margherita, nei pressi di corso Vittorio Emanuele II. Lavorò fino agli anni ’40. Il regno di Menchi, che vantava una clientela più estesa, era invece piazza San Giovanni in Campo.
Contemporaneo di Menchi e Materazzi fu Gaspare Pierangeli; aveva un’officina nel pomerio di porta San Florido ed era ancora attivo alla fine degli anni ’30.
In città, l’attività di Menchi fu prima continuata dal figlio Luigi e poi rilevata da Rodolfo Mangioni, già maniscalco a Trestina e poi suo aiutante; questi in seguito si trasferì fuori porta San Florido, non distante dal travaglio usato da Smacchia e Busatti.
L’arte della mascalcia venne progressivamente meno nel secondo dopoguerra, di pari passo con la diffusione del trasporto su vetture. Alla ferratura degli ultimi cavalli e muli adibiti a tal servizio furono inevitabilmente chiamati i pochi fabbri ferrai ancora attivi.
Per gli equini non si ricorreva al travaglio: un aiutante sollevava la gamba del quadrupede e il maniscalco ferrava. Se il cavallo si innervosiva, gli applicavano una morsa. Siccome la ferratura avveniva all’aperto, questi artigiani davano una forte impronta agli spazi pubblici che occupavano. Vi era sovente un gran via vai di quadrupedi: i cavalli dei barrocciai, dell’agenzia di trasporti dei Campriani e delle famiglie più benestanti, che continuavano a utilizzare i loro “legnetti” e calessi; e inoltre le asine da soma di qualche contadino (“micce”), i muli degli smacchiatori, dei carbonari e dei piccoli trasportatori. Tanti equini finivano con lo sporcare le strade urbane; qualcuno ne approfittava, raccogliendo gli escrementi su una carretta a mano per farne del concime.
Il buon maniscalco conosceva bene i cavalli dei clienti. Ne visionava per tempo gli zoccoli, così da prendere nota delle particolari caratteristiche, o di eventuali difetti, e predisporre in anticipo una gamma di ferri da applicare al bisogno. Quando gli portavano il cavallo, spianava lo zoccolo e riscaldava il ferro in modo che, con il calore, si adattasse ancora meglio; poi lo fissava con dei chiodi e infine con la “raspa” – una specie di lima – effettuava gli ultimi ritocchi, anche di carattere estetico.
Rispetto alla ferratura dei buoi, quella dei cavalli si presentava meno pericolosa e complessa; però, proprio per le forme assai varie degli zoccoli, richiedeva maggiore finezza artigianale. Il fabbro poteva permettersi qualche leggera approssimazione con i buoi; al maniscalco si imponeva precisione. Inoltre, i cavalli e i muli impiegati nel trasporto sulle strade selciate e asfaltate abbisognavano di frequenti ricambi di ferratura.
Vi erano maniscalchi anche nelle frazioni. Molti abitanti delle campagna utilizzavano asini per il trasporto di some di legna e muli per trainare carretti e barrocci o per andare a “smacchiare” nei boschi. La ferratura di questi equini avveniva generalmente nei nuclei abitati più vicini, dove operava un fabbro ferraio. Molto noto a San Secondo, con una vasta clientela in tutto il territorio circostante, era Paolo Fiorucci, detto “Falchetto”; conosceva bene il mestiere, anche per averlo esercitato sotto le armi. Oltre a lui, alla fine degli anni ’30 veniva censito come “maniscalco a mano” rurale Rodolfo Mangioni, a Trestina.
Nelle campagne, come s’è detto, si dedicavano alla mascalcia anche i fabbri ferrai.