Il bue veniva introdotto nel travaglio e leggermente sollevato con due cinghie poste sotto il ventre, in modo che toccasse a mala pena i piedi per terra e, pur reggendosi, non potesse divincolarsi. Poi lo si legava alle colonne laterali del travaglio, avendo cura di tenerne bloccata la testa con una corda a un altro palo situato di fronte. La ferratura non provocava dolore all’animale, che comunque poteva innervosirsi.
A questo punto la zampa del bue veniva alzata all’indietro e poggiata su una traversa in legno, così che il fabbro ferraio potesse lavorare con più comodo, come su di un banco.
Innanzitutto bisognava pulire le unghie (“ungni”), specie alle mucche da latte; crescevano tanto da richiedere una o due volte all’anno un taglio, per non rischiare l’azzoppamento. Per la ripulitura ci si serviva di un paio di tenaglie e di un attrezzo chiamato “incastro”, usato anche per la spianatura e la riduzione a giusta pendenza dello zoccolo. Talvolta vi era da togliere la “sacchèra”, un liquido marcescente che si formava al suo interno. Il fabbro bucava lo zoccolo con una specie di uncino, fino a far fuoriuscire il liquido; poi, per disinfettare, inseriva una mistura di “stoppióne” (erba con proprietà emostatiche), sale e aceto. Talvolta proteggeva la medicazione con un feltro; quindi applicava il ferro.
Se l’animale non si imbizzarriva, l’intera operazione di ferratura di un bue poteva richiedere dai venti ai trenta minuti. Un tempo i fabbri realizzavano in proprio i ferri per i buoi, con esclusivo lavoro di forgia; solo successivamente sono stati riforniti da aziende produttrici. Quelli fabbricati artigianalmente comunque si adattavano meglio allo zoccolo e i fabbri più valenti hanno sempre preferito produrli da sé e in misure assai varie, così da aver pronta un’ampia selezione per ogni circostanza.
In un territorio agricolo come quello tifernate, si contavano a migliaia i buoi impegnati nel lavoro sui campi e nei trasporti. La loro lunga fatica si protraeva dalla primavera all’inizio dell’autunno ed erano questi i mesi di più intensa attività dei fabbri ferrai. Non sempre i contadini portavano in città i buoi che avevano perduto o seriamente usurato i ferri, o che necessitavano del taglio dell’unghia. Più spesso, specialmente se abitavano lontano, chiamavano a domicilio il fabbro ferraio. Questi caricava in una borsa martello, incastro, tenaglie, chiodi e una certa selezione di ferri e “faceva il giro” dei clienti. Non di rado, raggiunta la famiglia mezzadrile, gli succedeva di ricevere commissioni per degli altri lavoretti o di doversi fermare per qualche riparazione. Chi ne possedeva una, si muoveva in bicicletta e poteva coprire un territorio assai vasto: GioBatta Mastriforti con la sua Triumph e Secondo Conti con una Olmo contavano infatti tra i 100 e i 150 “appalti”.
In campagna, mancando l’ausilio del travaglio, l’operazione di ferratura si presentava più complessa e i contadini stessi dovevano dare una mano. La testa dei buoi veniva tenuta ferma con delle corde legate a campanelle poste sui muri delle case coloniche; per la ferratura, le zampe posteriori venivano sollevate con un “canipo”, quelle anteriori a forza di braccia.