Francesco Nardi – defunto nel 1939 a 77 anni – aveva lasciato la direzione dell’officina ai figli Giovanni, Giuseppe e Silvio, desideroso di trascorrere la vecchiaia a coltivare quei campi per la cui lavorazione più facile e proficua aveva dato un contributo così rilevante. I tre fratelli non si trovarono concordi sull’indirizzo da seguire e il più anziano di essi, Giovanni, si mise in proprio, fondando la “Nardi Giovanni & figlio Francesco”. Si trattò di una separazione consensuale, perché le due ditte nel 1935 si conferirono vicendevolmente la rappresentanza delle macchine e attrezzi di propria fabbricazione; inoltre, in quello stesso anno, Giovanni trovò sede nello stabilimento già di Malvestiti, presso la stazione ferroviaria di Città di Castello, acquisito dalla Cassa di Risparmio a seguito di esproprio esattoriale nell’aprile del 1933 e da essa affittato alla “Nardi”.
La nuova fabbrica si inserì nel solco dell’azienda madre, utilizzandone inizialmente i brevetti ed esibendone i riconoscimenti ufficiali. Assunse subito una dimensione industriale consistente. Il numero degli addetti, dapprima oltre la trentina, si attestò negli anni 1937-1940 tra i 60 e gli 80, con un picco di 167 nel 1938, per poter soddisfare una notevole fornitura di attrezzi agricoli per le colonie dell’Africa Orientale. Però, a differenza della consorella di Selci Lama, la nuova impresa non beneficiò stabilmente di ragguardevoli commesse pubbliche e mantenne una clientela diffusa in particolar modo nel centro Italia e in Sardegna. La fabbrica aveva in dotazione macchinario d’avanguardia per Città di Castello: un maglio pneumatico, trancia e saldatura elettriche e presse idrauliche. Vi era inoltre un reparto falegnameria e segheria, per produrre le ruote in legno delle seminatrici.
Nel 1937 si trasformò in Società Anonima Nardi & Rossi. Ersilia Bellucci Rossi e i figli Pietro e Giuseppe investirono nell’azienda capitale di origine agraria, garantendo liquidità e favorendo l’accesso al credito. L’anno successivo il capitale sociale venne incrementato fino a L. 600.000 e fu eletto il primo consiglio di amministrazione, composto da Pietro Rossi, Giovanni Nardi e GioBatta Giammaroni Cherubini, un perugino già funzionario del Consorzio Agrario.
Il 1939 si rivelò però un anno difficile, con un deficit di circa L. 400.000 determinato, a giudizio degli amministratori, dalla “mancanza di materia prima in relazione alle spese generali dell’azienda”. Nella difficoltà di approvvigionamento, la “Nardi & Rossi” subiva certamente i riflessi negativi dell’isolamento internazionale dell’Italia fascista. La scarsa liquidità era allora un problema comune a molte imprese con clientela privata e di minuta consistenza. Comunque la fabbrica tifernate manteneva un buon prestigio, tanto da attrarre investitori forestieri. Proprio in quel periodo entrò in società, ricoprendovi la carica di amministratore unico, l’imprenditore Alberto Bianchi, originario della provincia di Piacenza. Mentre si provvedeva all’acquisto degli stabili dell’ex officina Malvestiti, peraltro già ampliati e adattati, per convenienze amministrative la sede legale venne trasferita a Milano.
Con il sopraggiungere della guerra, crebbe il peso di Alberto Bianchi, che collocò nell’azienda, come amministratore di fatto, il cognato Gino Granata. La nuova industria si chiamò SAFIMA (Società Azionaria Fabbrica Italiana Macchine Agricole) e si caratterizzò come produttrice di frangizolle.