La sera stessa dell’8 maggio dei camion portarono a Perugia i tifernati rastrellati. Insieme agli umbertidesi e a centinaia di altri si ritrovarono in un salone della “Spagnoli”, fabbrica di filati d’angora, tra polvere, sporcizia e pagliericcio umido, quasi senza cibo. Dormirono ammucchiati per terra. Li convocarono ad uno ad uno solo per una rapida visita medica che ne accertasse l’idoneità al lavoro. Solo alcuni furono lasciati liberi: tra di essi Pino Pannacci, altro giovane impiegato avventizio rastrellato nel municipio di Città di Castello; la Milizia fascista tifernate ne ottenne la liberazione per le gravi condizioni di salute della madre.
Poi il trasferimento a Firenze, per alcuni la mattina del 10 maggio, per altri l’indomani. Qualcuno riuscì avventurosamente a darsi alla fuga.
All’arrivo a Firenze compresero a cosa andavano incontro. Si leggeva all’ingresso del palazzo l’iscrizione: Centro Raccolta Lavoratori Volontari per la Germania. Le scorte armate tedesche al loro fianco rendevano beffardo quel “Volontari” scritto sul cartellone. Nel corso della breve sosta un sacerdote, tra lo sconforto generale, fece una predica infervorata sull’importanza di recarsi in Germania per il bene dell’Italia e del suo Duce Mussolini.
Paradossalmente, proprio l’11 maggio 1944 il capo della Provincia di Perugia diffondeva una circolare che rendeva noto l’accordo fra Germania e Italia per permettere il rimpatrio dal suolo tedesco di militari e civili italiani lì internati, la cui presenza urgesse per necessità produttive o per particolari esigenze di famiglia, soprattutto se “unici uomini validi insostituibili” per la coltivazione dei poderi. L’eventuale richiesta delle famiglie e delle imprese doveva essere vistata dal segretario del Fascio repubblicano, per certificare la buona condotta politica dell’internato.
La realtà fu che il 12 maggio la lunga fila di deportati raccolti a Firenze raggiunse la stazione ferroviaria, dove attendeva un treno merci con vagoni bestiame. Soldati tedeschi armati di mitragliatrici si posero ai lati di ciascuna apertura; gli italiani furono stipati una quarantina per vagone. I fiorentini che passavano per la stazione – donne e qualche anziano – li incitarono a fuggire, ammonendo che non sarebbero tornati vivi dalla Germania. Ma le sentinelle facevano buona guardia.
Il treno si fermò a Verona, bersagliata da un bombardamento dell’aviazione alleata. I deportati restarono chiusi nei vagoni, con il rischio di essere colpiti dalle bombe. Per alimentarsi non avevano che una grande pagnotta di pane da dividere fra i componenti di ciascun vagone. Un primo pasto lo poterono consumare solo in Austria: un brodino e delle patate; poi null’altro per i successivi due giorni di viaggio.
La tradotta giunse infine in Germania e il 16 maggio fece sosta a Erfurt. Gli italiani vennero sistemati in un campo di smistamento situato di fronte a un campo di concentramento di russi, che apparvero loro ridotti in condizioni pietose. Nel breve periodo lì trascorso, i deportati si sottomisero alle pratiche di rito prima della sistemazione nei lager: doccia e visita medica, disinfezione dei vestiti in acqua bollente, rasatura e depilazione completa. Il compito di rasarli e depilarli spettò a delle donne internate in quel campo di concentramento. Di cibo glie ne dettero assai poco: ma oltre il reticolato, i prigionieri russi agognavano di poter mangiare anche quel poco che veniva distribuito agli italiani. Ricorda Primo Fabbri: “Ci hanno dato un pezzo di pane con lo strutto di maiale. Ancora non soffrivo la fame, allora l’ho dato a quei russi, di là del reticolato, che di fame già morivano”.