La Germania nazista cominciò a servirsi di manodopera straniera sin dalle prime fasi della seconda guerra mondiale. Per il massiccio arruolamento degli uomini tedeschi nelle forze armate e nelle organizzazioni paramilitari, necessitavano braccia da lavoro sia in industria che in agricoltura. Alcuni lavoratori accettarono volontariamente di emigrare in Germania: dal 1940 vi si trasferirono tra gli 80.000 e i 120.000 italiani. Anche da Città di Castello ne partì un primo gruppo di venti il 12 maggio 1941, salutati da “La Nazione” come “messaggeri dell’Italia fascista e proletaria”. Altri li raggiunsero a settembre. Nelle loro lettere si compiacquero del “fraterno cameratismo” che correva tra loro e i tedeschi (“lo stesso affetto che passa tra il nostro amato Duce e Hitler”) e si dichiararono “orgogliosi di aver lasciato la nostra Patria per poter vivere in una seconda Patria che” – scrissero – “palpita con noi, che con noi divide le sorti di questa guerra rivoluzionaria”.
Non potevano però bastare gli immigrati per le esigenze produttive tedesche. Così da subito la Germania fece un ricorso spregiudicato a un colossale esercito di persone ridotte in condizioni di schiavitù o di semi-schiavitù. Già prima di sferrare l’attacco all’Unione Sovietica, i lavoratori coatti in Germania (Zwangsarbeiter), tra civili e prigionieri di guerra, ammontavano a più di tre milioni. La mancanza di manodopera si accentuò man mano che cresceva il bisogno di produrre più armi, soprattutto quando fu chiara l’evoluzione del conflitto da guerra di movimento a guerra di usura. Nelle vicinanze delle fabbriche, specialmente di armi, vennero quindi costruiti dei sotto-campi dei lager principali, ai quali l’industria pubblica e privata poté attingere per manodopera coatta. Nell’autunno del 1943 gli stranieri costretti al lavoro in Germania erano circa sette milioni: per il 33% provenivano dall’Unione Sovietica, per il 24% dalla Polonia – la deportazione di persone dai Paesi dell’est era stata particolarmente brutale – e per il 20% dalla Francia.
Dopo l’8 settembre 1943 la fonte più cospicua di manodopera coatta divennero i circa 650.000 uomini prigionieri militari italiani (Kriegsgefangenem). Proprio in quell’epoca la Germania avviò un imponente programma di costruzione di tunnel sotterranei e di bunker dove trasferire le strutture produttive minacciate dai bombardamenti. Vi sarebbero stati impiegati molti dei deportati altotiberini. Le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori-schiavi dei lager – già caratterizzate da denutrizione, maltrattamenti e mancanza di assistenza – peggiorarono ulteriormente. I responsabili dei lager dettero esplicite indicazioni di non preoccuparsi delle vittime umane: i lavori dovevano procedere a ritmi forzati.
È in questo contesto che si inserisce la vicenda dei deportati italiani, uomini per lo più di giovane età barbaramente rastrellati con la complicità dei fascisti e destinati a un lavoro massacrante, disumano, in genere di manovalanza e quindi da sfruttare fino all’esaurimento, considerata la facilità con cui si potevano sostituire coloro che cedevano, stremati.
Si calcola che furono circa 100.000 i civili italiani trasferiti in Germania dopo l’8 settembre. Solo alcune migliaia accettarono volontariamente di lavorarvi: per gli altri, dopo il rastrellamento e la deportazione, vi fu il lavoro coatto. Persero la vita, per malattia, violenze o bombardamenti circa 10.000 di essi. Altri 44.000 deportati, fra cui circa 9.000 ebrei, vennero detenuti nei campi di concentramento dipendenti direttamente dalla S.S. (la Schutzstaffel: Milizia di Difesa del regime nazista): ne sopravvissero appena il 10%.
Quanto ai prigionieri di guerra italiani che non accettarono di schierarsi con la Repubblica Sociale Italiano e i nazisti, il cui numero si aggira almeno sulle 600.000 unità, la Germania impose loro la condizione di “internati militari” (Italienisce Militaerinternierten), così da sottrarli alla tutela della Croce Rossa e costringerli a lavoro; poi, alla fine di luglio del 1944, sulla base di un accordo fra Hitler e Mussolini, vennero considerati anch’essi civili, ma non cambiò in concreto la loro condizione di lavoratori coatti. Finirono così con il condividere la sorte degli altri deportati nei campi di lavoro. Ne morirono circa 40.000. Anche l’Alta Valle del Tevere ha pagato un pesante tributo. Nei comuni di Città di Castello, San Giustino, Citerna, Pietralunga, Montone e Umbertide risultano ufficialmente deceduti in prigionia in Germania o nell’immediato dopoguerra, per le conseguenze degli stenti patiti, 62 uomini.
La scelta di circa il 90% dei prigionieri di guerra di non aderire al nazifascismo, restando in condizioni di dura prigionia, lavoro forzato, fame e maltrattamenti assume uno straordinario rilievo morale e dimostra quanto estesa fosse a quel punto il rigetto della guerra e dei regimi che l’avevano provocata.
Recenti studi fanno ammontare a circa 25 milioni, di 28 nazionalità, gli “schiavi di Hitler” dal 1933 al 1945: tra di essi 9.250.000 prigionieri militari (di cui 5.300.000 russi), 4.350.000 deportati politici (anche 2.300.000 tedeschi), 7.900.000 deportati razziali e di altre categorie di persone sottoposte a discriminazione (come gli zingari), 3.850.000 lavoratori o emigrati o rastrellati da Francia, Italia e Europa orientale. Ne morirono sui 16 milioni, specialmente ebrei e russi, nella miriade di campi di detenzione di prigionieri militari e lavoratori coatti sparsi in Germania e nel territorio europeo sotto il suo controllo.