Proprio mentre il regime fascista prendeva corpo con la sconfitta delle opposizioni, con l’ormai inarrestabile penetrazione sindacale, con il varo delle opere Balilla e Dopolavoro, con l’attività dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia e con l’introduzione della figura del podestà di nomina prefettizia in luogo del sindaco democraticamente eletto, il Fascio di Città di Castello si trovò a dover rilanciare le sorti del partito e dell’amministrazione comunale.
Per il delicato compito puntò su Luigi Mignini, colto proprietario terriero di origini liberali, tenutosi del tutto estraneo alle discordie interne al fascismo tifernate. Per quanto alcuni suoi esponenti guardassero con una certa diffidenza a quest’uomo che non era certo una camicia nera del primo momento, Mignini godette della fiducia del prefetto, che lo insediò come podestà nel febbraio del 1927. Gli fu pure affidato il Fascio, prima a capo di un triumvirato con Gustavo Vaccari e Pietro Gambuli, poi, dall’agosto di quell’anno, con pieni poteri. Il duplice incarico si rivelò però troppo impegnativo e Mignini abbandonò le redini del partito, che nel febbraio del 1928 tornarono nelle mani di Furio Palazzeschi.
Nemmeno questo ulteriore assestamento del Fascio ebbe effetti durevoli. L’ultimo scossone vi sarebbe stato di lì a un anno, con l’uscita di scena dello stesso Palazzeschi. Il suo ridimensionamento politico fu provocato dall’improvvida gestione di un prestito da lui autorizzato come presidente della Cassa di Risparmio. Beneficiò del mutuo, concesso senza adeguate garanzie per l’ente di credito, Filippo Niccolini, già suo socio in un’impresa commerciale e altra figura di spicco del fascismo locale. Quando Niccolini non poté restituire interamente il credito, sorsero polemiche e insinuazioni – alimentate da avversari politici mai domi – che indussero Palazzeschi a dimettersi prima dalla presidenza della Cassa e poi dagli incarichi di partito. Volle così tener fuori l’ente e il Fascio da ogni controversia. Ma la vicenda si concluse in modo politicamente rovinoso per lui. Un’inchiesta bancaria e un processo ne accertarono le responsabilità: alla condanna seguì pure il ritiro della tessera del PNF da parte degli organismi federali. Nel giro di un paio di anni tramontava definitivamente l’astro dominante del fascismo tifernate negli anni ‘20.
Il Fascio avrebbe finalmente conosciuto un prolungato periodo di stabilità solo con il suo successore alla segreteria politica, Mario Tellarini, nominato dal prefetto Ciofi Degli Atti all’inizio di giugno del 1929. Il nuovo segretario rimase saldamente alla sua guida fino al 1935. Avvicinatosi al fascismo all’indomani dell’assalto alla Camera del Lavoro, membro delle squadre d’azione, ma restio a partecipare alle incursioni delle camicie nere, Tellarini fu l’abile interprete di una linea politica moderata che gli guadagnò il sostegno di un partito stanco di guerre fratricide. Di professione ragioniere comunale, esprimeva le aspirazioni di un ceto medio urbano che richiedeva tranquillità ed ordine; e Tellarini seppe ben destreggiarsi nella quotidiana opera di mediazione, così con la gente comune, come con i gerarchi. Nell’immediato dopoguerra avrebbe rievocato: “Nella difficile situazione creatasi a Città di Castello, ove i contrasti e le beghe avevano raggiunto e sorpassato ogni limite, con danno evidente dei singoli e della collettività, la mia opera, conforme ai miei sentimenti ed al mio carattere, fu calma, serena, disinteressata e conciliante. Ottenni l’allontanamento dall’ambiente degli elementi fascisti più violenti ed intransigenti […]”. E inoltre “Ebbi il consenso e l’appoggio dei fascisti ma più particolarmente dei non fascisti, che da un periodo di terrorismo ebbero il sollievo di una normalizzazione effettiva”. Su tali considerazioni avrebbe sostanzialmente concordato anche la grande maggioranza degli antifascisti; infatti Tellarini non subì il provvedimento di epurazione.
Intanto era stato “pacificato” pure l’irrequieto fascismo umbro, con l’estromissione, il ridimensionamento e l’allontanamento ad altri incarichi di tutti i suoi principali protagonisti: “Il regime” – scrive Renato Covino – “stabilì un patto con i vecchi ceti dominanti: in cambio della stabilità della loro egemonia economica e sociale essi rinunciarono ad esprimere posizioni autonomistiche e di fronda rispetto al potere costituito”. E trovano rispondenza nella realtà di Città di Castello le considerazioni dello stesso Covino e di Giampaolo Gallo sulla classe dirigente che allora si insediò al potere: “Gli amministratori, i dirigenti del partito o sono obbedienti e oscuri burocrati, o esponenti, anch’essi non particolarmente vivaci, del notabilato locale, dei ceti professionali e agrari. La vita pubblica regionale conosce, come del resto quella economica e sociale, una fase di stagnazione”.
Per un quadro più ampio del tema, si veda il mio volume Il fascismo a Città di Castello, Petruzzi Editore, Città di Castello 2004.