Il 29 giugno 1916 i soldati italiani trincerati tra il Monte San Michele e San Martino del Carso furono colti impreparati da un attacco con gas asfissianti. Per la prima volta il nemico vi faceva ricorso in modo massiccio. La nube di gas con cloro e fosgene uccise migliaia di soldati e ne ridusse in condizioni critiche molti altri.
Il capitano medico Gregorio Soldani descrisse come i gas venivano rilasciati: “Contenuti sotto altissime pressioni, si parla di 10 atmosfere, in recipienti metallici, li fanno uscire da un tubo munito di rubinetto, al momento opportuno. Essendo il gas più pesante dell’aria invade le trincee uccidendo in pochi minuti coloro che vi si trovano”.
Sulla morte per gas asfissianti, bastino le vivide parole di Gaetano Boschi: “Morte brutta: bruciore agli occhi e lagrimazione tormentosa, irritazione dei bronchi acutissima; poi opacamento della coscienza, abbattimento, lividure del volto, schiuma alla bocca e vomito di sangue: e la fine”.
In un successivo assalto, gli austro-ungarici che riuscirono a raggiungere le trincee italiane finirono brutalmente i feriti a colpi di mazze ferrate. Altri feriti vennero soccorsi dai commilitoni usciti indenni dall’aggressione chimica e portati nei più vicini posti di assistenza sanitaria. Soldani, che prestava servizio nel vicino ospedale da campo di Romans, constatò che l’esposizione ai gas lasciava “fatti bronchiali gravissimi” e fu sconvolto dalla tormentata morte di un ferito in poche ore: “Che straziante agonia! Io mi domando, a vedere questi spettacoli, se può esservi nel mondo qualche cosa di più feroce dell’uomo”.
In quell’attacco persero la vita 22 militari dell’Alta Valle del Tevere. Dodici di essi morirono immediatamente, tra il Monte San Michele e Sagrado; gli altri dieci furono ricoverati nella 22ª sezione di sanità e in quattro ospedali da campo, ma sette di essi decedettero lo stesso giorno, tre l’indomani.
Altri due altotiberini, un tifernate e un umbertidese, avrebbero perso la vita asfissiati dai gas nelle Argonne, il 15 luglio 1918. Proprio in Francia aveva fatto la sua comparsa questa arma nuova e letale, temuta dai soldati perché colpiva improvvisa, imprevedibile. A subirne per prime il devastante effetto furono le truppe francesi trincerate nella regione di Ypres. La nube di cloro lanciata contro di loro dai tedeschi il 22 aprile 1915 provocò una strage. Di fronte all’esecrazione generale, i tedeschi fecero presente che l’uso dei gas era stato iniziato proprio dai francesi, a marzo, con il lancio di proiettili e bombe a mano piene di bromo e cloro-acetone.
Sul fronte italiano, già nel 1915 gli austro-ungarici fecero uso di granate a caricamento chimico, specialmente sull’Isonzo. Se le trovò addosso anche il cappellano Domenico Vannocchi sulle Dolomiti. Durante un intenso cannoneggiamento, alcune granate scoppiarono proprio presso la baracca nella quale si era rifugiato. Scrisse nel diario: “Il peggio che due di esse contengono gas asfissiante, non si può resistere dall’afrore e bruciore agli occhi. Siamo in otto e ci sono due sole maschere. Si rompe una bottiglietta e si inzuppa il fazzoletto; alla fine siamo costretti ad uscire. Per fortuna smettono il tiro. Per me è stato il più brutto quarto d’ora che abbia passato in vita mia”.
Come testimonia Vannocchi, le truppe italiane avevano già in dotazione delle maschere antigas, per quanto ancora rudimentali e in quantità insufficiente. Inizialmente si difesero applicando alle vie respiratorie un semplice filtro, realizzato con tamponi di garza imbottita di cotone e impregnati di sostanze chimiche reagenti; inoltre indossarono protezioni per prevenire disturbi agli occhi. Successivamente le due parti furono accorpate nella maschera antigas.
Nel corso della guerra la ricerca scientifico-militare portò sia allo sviluppo di più distruttivi aggressivi chimici, sia al perfezionamento dei sistemi di difesa. Di come però si insegnassero ai soldati anche sistemi molto empirici per sopravvivere ai gas sono prova gli appunti vergati da Luigi Leonardi: “[L’istruttore] c’insegna diversi modi di difendersi dai gas lacrimogeni e asfissianti anche senza maschera. 1° andare in alto il più possibile, 2° tappare il naso e la bocca e andargli incontro, 3° prendere un fazzoletto fatto a benda e metterci o terra, o fieno, o paglia o altre cose eppoi applicarlo al naso e alla bocca, 5° dar fuoco alla legna, 6° bagnare della calce […]”.
La strage del Monte San Michele intensificò l’impegno difensivo italiano, che si concretizzò con l’adozione della maschera polivalente a protezione unica. Distribuita dal gennaio 1917, era contenuta in una scatola di latta indossata a tracolla; vi si leggeva: “Chi si leva la maschera muore – Tenetela sempre con voi”. Riusciva a neutralizzare i gas asfissianti e lacrimogeni fino ad allora conosciuti e lasciava passare abbastanza aria per una respirazione sotto sforzo.
Le truppe italiane avrebbero subito un nuovo devastante attacco con armi chimiche a Caporetto, quando i tedeschi si aprirono la strada usando anche proiettili di artiglieria carichi di disfogene e di difenicloroarsina.
Nella primavera del 1918, la comparsa sul fronte occidentale dei gas vescicanti (la yprite) avrebbe richiesto la produzione di adeguato vestiario protettivo.
Solo per ritardi di natura tecnica l’esercito italiano non fece ricorso su vasta scala a questi strumenti offensivi: “L’impiego di armi chimiche da parte italiana rimane così ristretto a granate di artiglieria a caricamento speciale (bromuro di etile, 1916; cloropicnina e fosgene, 1917; fosgene e cloruro di stagno, 1918), ed a poche migliaia di proiettili vescicatori giunti dalla Francia a Dueville la sera del 23 ottobre 1918, alla vigilia della battaglia di Vittorio Veneto”.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.