Nella seconda guerra mondiale, Alvaro Sarteanesi (1914-2005) combatté in Slovenia. Nel 1943-1944 ricoprì gli incarichi di vice-segretario del Fascio Repubblicano di Città di Castello e di vice-comandante della Guardia Nazionale Repubblicana. Fu poi insegnante di disegno e apprezzato pittore.
Ruolo nella Guardia Nazionale Repubblicana e nel Partito Fascista Repubblicano
Fui presto richiamato e mi arruolai come sottotenente (il mio grado nell’esercito) nella Guardia Nazionale Repubblicana. A Città di Castello vi era l’ufficio del presidio, comandato da Dorando Pietro Brighigna, presso la vecchia sede del ginnasio di via XI Settembre, sopra il corniciaio Alunni. Esisteva anche il Centro di Addestramento. Questo distaccamento svolgeva per lo più azione di polizia e si chiamava COP, Compagnia di Ordine Pubblico.
Per quanto riguarda il Partito Fascista Repubblicano, il mio apporto come vice-segretario era sporadico, poiché avevo un incarico militare. Ci si vedeva qualche volta con Orazio Puletti, ma dedicavo gran parte del mio tempo alla GNR.
Dal Partito Nazionale Fascista al Partito Fascista Repubblicano
Nel direttorio del PFR si era tutti giovani. Un rinnovamento totale in seguito alla vittoria della linea politica “rivoluzionaria”. Prima, durante la guerra, il direttorio era composto da anziani. Con la “repubblica” subentrarono i giovani. Non si trattò però di un avvicendamento indolore. Vi fu un dibattito acceso. Vi era una contrapposizione con il vecchio fascismo e i suoi esponenti ci rimasero male. I fascisti moderati in un certo senso assunsero un atteggiamento di polemico distacco. Non mancarono risentimenti. Fu un travaglio acceso ed esteso. Si venne a parole. A Castello però mancavano figure emblematiche e potenti del vecchio fascismo; si identificava con personaggi come Mario Tellarini e Fausto Desideri, e l’avv. Vincenzo Paolieri, figura energica. È mancata la grande personalità. Sintomatico il fatto che la gestione più lunga e significativa sia stata quella di Tellarini, una figura di medio calibro, di buon senso, gradita a tutti.
La figura di Orazio Puletti, segretario del PFR e commissario in Comune
Era uno che ci credeva, ma senza fanatismi. Socievole, figlio di Washington Puletti, commerciante. Volenterosissimo, si mise a studiare e si laureò nel dicembre del 1943. Era ambizioso, ma la sua ambizione la sfogò costruttivamente nello studio. Uomo di vita, allegrone, riflessivo. Non era autoritario. Una persona mondana da ragazzo. Ha saputo sopportare il peso delle responsabilità che si era accollate senza ambizione. Fu scelto per le qualità e l’esperienza che aveva. Era stato dirigente dei giovani. Dopo la guerra si inserì nell’insegnamento e divenne preside a Viterbo. Non ebbe grandi noie.
Tra i fascisti l’unico che contava qualcosa era Puletti. Pietro Gambuli non contava niente. Dorando Pietro Brighigna, un introverso, comandava il presidio, in via XI Settembre, e aveva qualche milite ai suoi ordini, ma per lavoro amministrativo, di polizia annonaria ecc.; non contava niente. Gli operativi erano invece nella Compagnia di Ordine Pubblico, alla GIL, ma molti erano forestieri.
La milizia fascista (Guardia Nazionale Repubblicana)
Nella milizia vi erano alcuni che ci credevano e molti altri che si erano arruolati per non avere noie e non essere considerati disertori. Molti arresti di giovani renitenti non furono eseguiti perché gli interessati erano stati avvertiti in tempo. Non c’era malanimo, la maggior parte dei fascisti capivano la necessità della moderazione. Il comandante della milizia era Dorando Pietro Brighigna; però non riscuoteva la fiducia dei camerati.
Attività antifascista di Venanzio Gabriotti, suo arresto e fucilazione
Noi sapevamo che aveva contatti con i partigiani e lo ammonimmo convocandolo nella nostra sede. Ci si conosceva: “Smetti di andare su, ci metti nei pasticci, ci possono essere conseguenze gravi”. Ma non ci stette ad ascoltare, nemmeno negò recisamente gli addebiti, si mostrò evasivo. Si sentiva ormai sicuro, e poi non prendeva le cose sul serio [omissis].
Insomma si cercò di dissuaderlo per evitare a lui e a noi dei problemi. Si viveva in un’atmosfera pesante, c’era sempre il rischio di essere coinvolti nel sospetto di collaborare con gli antifascisti… E poi vi erano situazioni familiari delicate, problemi gravi per tutti [omissis]. Lo chiamammo due o tre volte, non ci dette retta. Agli incontri ero presente. Il povero Orazio Puletti dava del tu a Gabriotti: “Smettila, sappiamo che vai di qua e di là, lascia perdere”. Lui restava evasivo, ma non si tirava indietro.
La sua morte fu dovuta alla stupidaggine di aver ammesso i contatti con i partigiani, quando sarebbe stato sufficiente negare tutto. Invece disse di essere andato lassù per fare opera di convincimento sui partigiani a tornare in città. Allora gli fu mostrato da Hans Tatoni il manifesto che vietava ogni contatto con essi, ricordandogli che sarebbe bastato chiedere l’autorizzazione a svolgere quell’opera di convincimento, e loro l’avrebbero data.
Quanto al tentativo di mediazione del vescovo Cipriani non ero presente al fatto. Bisogna però dire che nella GNR convivevano elementi locali più portati a mantenere la tranquillità in città, ed elementi forestieri che talvolta erano poco propensi a compromessi o a chiudere un occhio.
Puletti fece molto per cercare di salvare Gabriotti. Andò a Perugia per trovare il modo, me lo disse lui. Ma si parlava sempre concisamente e con circospezione di queste cose: cosa avrebbero potuto pensare i tedeschi se immaginavano che si stesse cercando di salvare un partigiano?
Il plotone di esecuzione
Non mi risulta che ci fosse qualche fascista di Castello nel plotone d’esecuzione. Mi ricordo che c’era qualcuno di Gubbio. Personalmente non fui testimone di niente perché quel giorno non ero in città. Però per quel che se ne è parlato dopo, non ho mai sentito dire di castellani implicati nella fucilazione. Quando poi sono stato imprigionato dopo la guerra, non c’è stata alcuna inchiesta giudiziaria al riguardo, non mi è stato chiesto niente su quel fatto. Considerate le mie cariche allora, avrei dovuto almeno essere sentito, invece niente. Poi tutto è stato amnistiato nel 1948.
Naturalmente non posso mettere la mano sul fuoco che non c’era alcun castellano, ma è realmente quanto so. Bisogna considerare che allora si parlava poco di ciò che avveniva. Il clima era fosco: i tedeschi diffidavano anche di noi fascisti, tra di noi si temeva che qualcuno potesse fare il doppio gioco, c’erano tanta riservatezza e timore. Si obbediva agli ordini e si stava zitti. E chi comandava davvero allora erano i tedeschi. Mi risulta che siano stati loro a voler fucilare Gabriotti, che s’è fregato da solo ammettendo l’incontro con i partigiani.
L’epurazione dei fascisti dopo la guerra
Io ancora ne subisco le conseguenze, perché non è stato riconosciuto il mio servizio in guerra: “Non ammesso a godere dei benefici” come combattente, perché ero ufficiale. Sono stato imprigionato due mesi a Castello e due mesi a Perugia. Imputazioni: collaborazione semplice e militare, omicidio per aver partecipato ai rastrellamenti. Ci avevano messo parecchia roba. La collaborazione semplice comportava sei anni e otto mesi di carcere. Con me in carcere c’erano il prof. Landucci, Cancellieri (operaio di Godioli), Tavernelli, Pieroni, Vaccari. Furono epurati anche il maestro Lentini e il maestro Angeletti (fu costretto ad andare a vendere aghi e lucchetti).
Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 4 maggio 1990. Testo coperto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
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