Un ricordo indelebile della sua vita partigiana Piero Signorelli se lo porta addosso: “La pallottola m’è rimasta dentro la spalla; ogni volta che faccio i raggi mi dicono che ho un corpo estraneo…” Fu ferito dai fascisti l’8 aprile 1944, Sabato Santo. Aveva 19 anni ed era insieme a Guerriero Baffo, giovane del 1922 che comandava la banda di Monte Santa Maria Tiberina. Riuscirono a sfuggire al rastrellamento e a tornare alla macchia. Ma quella ferita fece tribolare Signorelli: la fuga a piedi da Marcignano a Marzana per una prima medicazione nell’ospedale da campo partigiano; poi ancora il trasferimento a cavallo verso un casolare sopra Morra per fare un’iniezione antitetanica.
Signorelli racconta la sua esperienza di lotta contro il nazi-fascismo con lucidità e senza retorica: “Non m’ha dato medaglie nessuno; non era eroismo il nostro, ma lotta per la sopravvivenza”. Apparteneva a una famiglia di coltivatori diretti di Marcignano. Come tutti i giovani dell’epoca, era stato plasmato dalla propaganda del regime: “Allora noi si veniva dalla cultura fascista; se non la conoscevi bene, non passavi gli esami. Un po’ di antifascismo c’era in qualche famiglia. Come in casa mia: il mio babbo si sapeva che non era fascista”.
Il momento della scelta per Signorelli avvenne nel settembre del 1943. A fine mese avrebbe dovuto arruolarsi tra i bersaglieri. Ciò significava andare in guerra nel nome del fascismo e a fianco dei tedeschi. Proprio non ne volle sapere: “La prima riunione di noi renitenti la facemmo in un boschetto poco oltre Marcignano. Era metà settembre e stava per scadere il termine per la presentazione della nostra classe. Si voleva resistere, ma come? S’aveva appena qualche fucile da caccia…”.
Per quella banda di renitenti alla leva, con qualche disertore, la questione di come rifornirsi di armi e potersi così difendere fu cruciale. Un primo moschetto Signorelli l’ebbe da un falegname antifascista di Città di Castello, al quale l’aveva lasciato un militare in fuga dopo l’armistizio, in cambio di vestiti da civile: “Ho nascosto quel moschetto dentro una balla e l’ho portato via, legandolo alla canna della bici insieme ai libri. Allora andavo ancora a scuola all’Agraria, a Castello”.
A fine ottobre la nascente banda venne a sapere che un tale di Santa Sofia, in Romagna, vendeva delle armi: “Le aveva avute da soldati sbandati dopo l’8 settembre e le rivendeva. Andammo lassù a piedi in tre e riportammo cinque moschetti”. Di altre armi se ne impossessarono disarmando due sottufficiali della forestale che passavano in bicicletta.
Certo, non era con dei moschetti 38 e 91 e con delle pistole che la nascente banda partigiana poteva ambire di combattere, soprattutto contro i tedeschi. Eppure, siccome i rifornimenti alleati non sarebbero arrivati che a primavera inoltrata, per diversi mesi i giovani alla macchia avrebbero dovuto contare solo su quei moschetti italiani. E fu con tale armamento che avvennero numerose azioni di disturbo, di sabotaggio e, in particolar modo, di disarmo di presidi fascisti. La prima incursione fu a Teverina, presso Cortona: “Si partì da qui, a piedi. S’era solo noi del Monte. Facemmo l’azione a mezzanotte. Era una caserma di carabinieri con dei fascisti della milizia; sette in tutto. Noi si era una ventina. Prima dell’attacco, come sempre, si tagliò i fili del telegrafo. In quel caso il maresciallo dei carabinieri non volle arrendersi subito e dovemmo sparare alla finestra e tirare dentro un paio di bombe a mano. Erano quelle italiane, le Balilla, che facevano solo tanto fumo; ma una scheggia ferì la moglie del carabiniere alla mammella. Purtroppo la guerra è guerra”.
Poi altri assalti. A Lugnano: “Lì i carabinieri erano già fuggiti; si prese i moschetti che avevano lasciato in caserma”. A Foiano della Chiana: “C’erano la Forestale e la Finanza, disarmammo tutte e due. Arrivammo la sera, verso le 9, con quelli di Castiglion Fiorentino. I militi si aspettavano il nostro arrivo e hanno ceduto subito le armi; non fu sparato un colpo”. A Poti: “Ci andammo di notte con quelli di Arezzo. C’era la caserma della contraerea. Siamo entrati dando due calci alla porta. Sono rimasti sorpresi e si sono guardati tra di loro. Si sono raccomandati, dicendo che erano padri di famiglia. Non c’è stato alcun combattimento. Li abbiamo fatti andar via e abbiamo prelevato due cassette di bombe a mano tedesche, cinque moschetti e due rivoltelle Beretta”. Un’incursione fu fatta addirittura nella lontana Badia Tedalda: “In quella caserma c’erano 11 fascisti e un paio di carabinieri. Il brigadiere aveva fatto sapere che in caso di attacco partigiano avrebbe aperto la porta. Così è andata. Abbiamo rimandato a casa fascisti e carabinieri e portato via le armi. Siamo andati lassù dal Monte a piedi: quando lo racconto, la gente non lo vuol credere; il difficile erano questi spostamenti”.
Tali azioni oltre il territorio di appartenenza e insieme ad altri gruppi partigiani si spiegano con il fatto che durante l’inverno la banda del Monte, pur mantenendosi autonoma, aveva accettato di collegarsi con il comando partigiano di Arezzo e con quella che sarebbe stata denominata 23a Brigata Garibaldina “Pio Borri”.
Paradossalmente l’assalto più complesso alle caserme della Guardia Nazionale Fascista si rivelò quello più vicino, a Monte Santa Maria Tiberina: “C’erano 7 carabinieri e 16 fascisti, mi sembra. Prima li abbiamo invitati ad arrendersi. Noi si era una settantina, con i partigiani di Morra, e già armati con i mitra datici dagli Alleati. Però andò a finire che vollero difendersi”. Dopo una sparatoria piuttosto violenta, i militi si arresero. Signorelli aveva dei conti in sospeso con un sergente fascista: era tra quelli che gli avevano sparato addosso. Era scappato a casa: “Sua moglie, incinta con la panciona, piangeva. L’ho tranquillizzata, le ho detto che a suo marito non lo ammazzavo, ma che ‘du zampète gni le voléo dè’”. In effetti quel fascista se la cavò con “du zampatoni sul culo”.
Far la guerra ai tedeschi si rivelò cosa ben più complicata, e pericolosa: “Abbiamo combattuto contro di loro durante il rastrellamento di Marzana. Devo ammettere che ho avuto paura e che sono vivo per miracolo. Mentre scendevo giù dal monte e tenevo il mitra a canna in giù, una raffica ha letteralmente polverizzato il calcio del mio ‘Thompson’. Per pochi centimetri non mi ha fatto secco. Le pallottole si sentivano fischiare. E poi i tedeschi sparavano coi mortai. Se ripenso a quello schianto delle granate dei mortai… Non ci si era passati mai, noi”.
Eppure quei giovani partigiani qualche problema l’hanno creato ai tedeschi. Signorelli e i suoi compagni ne presero prigionieri alcuni. Un giorno ebbero l’ordine di controllare se al Castellaccio, sopra Trestina, si trovava un loro deposito di munizioni e di materiale militare. Gli arrivarono addosso di sorpresa: “C’era un tedesco in cima alle scale che faceva la barba. Quando gli ho puntato addosso il mitra, gli è caduto il rasoio, ma ha mantenuto la calma e m’ha detto ‘Gut’, ‘Gut’, stai buono!”. La pattuglia di Signorelli ne catturò quattro e li portò a Marzana dove, oltre al comando e all’ospedale da campo partigiano, c’era un loro campo di concentramento. Arrivò a ospitare ben 64 prigionieri tedeschi. La squadra di Signorelli ne prese altri anche durante il rastrellamento di maggio: “Eravamo appostati sopra Petriolo, vicino alla Murcia del Soldato, con due mitra e due moschetti. Alle prime luci dell’alba sentiamo bisbigliare. Vediamo una pattuglia di quattro tedeschi che si avvicina. Quando arrivano a tiro gli intimiamo lo stop. Ma uno di loro cerca di scappare con una capriola giù per il greppo. Facciamo fuoco contemporaneamente e abbiamo l’impressione di ammazzarlo; infatti sentiamo rotolare l’elmetto e, quando questo succede, è un segnaccio”.
La guerra è morte, e Signorelli racconta con molto pudore gli episodi, di cui fu protagonista, che si conclusero tragicamente. Come quella volta a Ranchetto, sopra Rassinata: “Ho sentito arrivare un colpo da dietro il forno di una casa colonica. Ho visto distintamente un elmetto tedesco e ho ancora impressi nella mente i denti bianchissimi di quell’uomo. Ho fatto fuoco, una raffica, e sono scappato. Dopo la guerra mi prese voglia di tornare sul posto per capire come era andata. Trovai un coppo del forno distrutto dalla mia raffica e un elmetto tedesco ammaccato da un proiettile”.
Ancor più drammatico l’imprevisto incontro con dei tedeschi che stavano razziando un’aia a Rovigliano. Signorelli e un altro partigiano se li trovarono davanti, armati, e non poterono far altro che sparare con i loro moschetti. Un tedesco morì sul colpo, un secondo rimase ferito, altri tre scapparono con la loro jeep. Si prospettava il rischio, temutissimo, che i tedeschi, se certi della morte di un loro commilitone, scatenassero una rappresaglia contro la popolazione. Fu così necessario far sparire il cadavere dell’ucciso, eliminando ogni traccia di sangue dall’aia e lasciando intendere che i due soldati erano stati catturati. Andò proprio così e la rappresaglia fu evitata. Signorelli lo ricorda bene: “Noi avevamo l’ordine tassativo dal comando partigiano di provocare meno morti possibile; e di cancellare ogni traccia nel caso non si riusciva ad evitare un’uccisione. Si sapeva che le conseguenze di ogni morto tedesco sarebbero ricadute sulla popolazione, che poi era la nostra gente”.
L’invito a non spargere inutilmente sangue giungeva dai dirigenti più esperti del movimento partigiano. Signorelli fu presente a un incontro avvenuto a Ronti, al quale partecipò anche Venanzio Gabriotti, poco prima del suo arresto e della sua fucilazione. Ne ricorda bene le parole: “Coi tedeschi agite da soldati; coi fascisti, non lo dimenticate, è sangue fraterno che si sparge”.
Il racconto di Signorelli rievoca le ristrettezze e le durezze della vita alla macchia: il freddo invernale che gelava le mani quando si era di guardia e bisognava impugnare le armi senza guanti; la notte di Natale passata con due compagni accovacciati nella cavità di un albero per ripararsi dal freddo; la notte passata con Remo Burini in due loculi del cimitero di Morra, mentre fuori pioveva a dirotto, per sfuggire a un rastrellamento (“Bene non abbiamo dormito di sicuro! Il problema è stato tirarsi fuori la mattina; che tribolazione!”). E il giorno di Pasqua nascosto nel bosco, ancora con la febbre per le conseguenze della ferita. In quella circostanza gli arrivò comunque un piatto di tagliatelle da Mucignano. Era la solidarietà del popolo rurale, che mai mancò a questi giovani alla macchia. Anche quei contadini che non volevano troppo compromettersi una mano la davano: “Non si facevano vedere, ma ci lasciavano da mangiare e fiaschi di vino agli incroci dei sentieri. Oppure ci lanciavano cibo dalle finestre senza farsi riconoscere”.
Con Signorelli si parla anche dei sacerdoti della zona in quel periodo: del parroco di Ronti, don Gino Tanzi (“noi lo consideravamo un amico, si ascoltava Radio Londra con lui e per questo fu arrestato e portato a Perugia”); di don Ettore Mosci (“aveva addirittura tre fratelli nella banda di Morra”); di don Vittorio Boscain, parroco del Monte (“fu preso in ostaggio perché noi partigiani si aveva tagliato i fili delle linee telefoniche che collegavano le batteria di artiglieria tedesche”); di don Bista Mari, parroco a San Martin Pereto (“un altro prete fidato, abbiamo dormito anche nella sua cantina”); di don Basilio Fratini (“lui, il mio parroco, invece tendeva al fascismo e mi diceva ‘Ti pare, andare a fare il bandito!’”).
Signorelli tiene a sottolineare che la Resistenza non ha avuto un solo colore politico: “Non si parlava di politica alla macchia, al massimo qualche battuta. È vero che si cantava tutti ‘Bandiera rossa’, ma solo per antifascismo. La maggioranza dei partigiani avevano orientamento socialcomunista e repubblicano, ma ognuno rispettava le idee degli altri. Mancava il settarismo. E poi le vere scelte politiche e di partito vennero dopo la guerra”.
Il ricordo poi va a chi ha perso la vita in questa lotta per la riconquista della libertà e della dignità del popolo italiano. Come Sante Calagreti: “Era un operaio di Castello, ma originario di qua. Ebbe l’ordine dal comando partigiano, su richiesta degli inglesi, di andare in esplorazione per segnalare le posizioni tedesche. Fu colpito proprio davanti alla chiesa di Prine da una scheggia di mortaio che gli squarciò il petto. Rimase due giorni insepolto, sotto una coperta”. Nella zona si stavano combattendo britannici e tedeschi. Calagreti morì morì l’11 luglio, pocoprima della Liberazione.
Il rapporto con gli Alleati, quando giunsero nella valle del Nestoro, non fu idilliaco: “Gli inglesi ci hanno accettato, come patrioti, e ci hanno adoperato come guide, di pattuglia, quando gli faceva comodo. I soldati fraternizzavano con noi, ma gli ufficiali stavano duri. Onestamente, non si fidavano, non ci consideravano niente. Questo non mi andava proprio giù”. Il lavoro delle pattuglie era molto pericoloso: “Si trattava di andare in avanscoperta, a scovare le postazioni tedesche di prima linea. In genere si era noi ex partigiani del posto con un sergente inglese, perché loro non si fidavano a mandarci da soli”. Un giorno, presso il podere Castelrotto, sopra Lippiano, Signorelli fu testimone del dramma che si abbatté sui britannici: “Un loro capitano, sui 50 anni, si espose per guardare la zona con il binocolo e fu fatto fuori dai tedeschi. In quella zona senza alberi, i tedeschi ammazzarono 11 britannici, con la mitragliatrice; vidi i loro corpi, sparsi qua e là”.
Signorelli ha seguito i britannici fino a Verghereto e poi oltre la Linea Gotica, lungo l’Adriatico, fino al Po: “Ero nella Military Police, c’era da fare il lavoro sporco di arrestare i fascisti e di tenere l’ordine pubblico. Un lavoro che era apprezzato dagli inglesi sul campo, ma di riconoscimenti ufficiali te ne davano pochi. Ecco perché non sono partito con la Divisione Cremona all’inizio del 1945: allora stavo con gli inglesi”.
Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini e pubblicata ne “L’altrapagina”, gennaio 2015. Testo coperto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
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