Il tifernate Livio Dalla Ragione (1922-2007) fu partigiano della prima ora nella Brigata Proletaria d’Urto “San Faustino” e comandò la banda di Montebello. Combatté poi come volontario nel Gruppo di Combattimento “Cremona”. Fu decorato di medaglia d’argento al valor militare. Il suo nome è legato anche al Centro delle Tradizioni Popolari di Garavelle (Città di Castello), che fondò e diresse.
Influenze antifasciste
Il babbo mio e di Mimmo [Settimio] Gambuli, detto Gamonchio, erano amici e antifascisti: il mio ferroviere, il suo falegname, vecchio socialista. Andavano in mutua per fare festa il 1° maggio. Gamonchio metteva un’asse di legno sulla porta della bottega e non si faceva rivedere… Io venivo dal servizio militare, dove avevo constatato che i tedeschi ti trattavano a pesci in faccia; in più nel mio reparto di guastatore c’era un sergente universitario, un intellettuale che leggeva Il capitale di Marx.
L’armistizio
Tornai a casa dopo l’8 settembre… Quando uscirono i bandi del servizio obbligatorio di lavoro andai ai Cerboni, alla Cima, con degli amici. Poi, quando uscì il bando che, se ci si presentava, non succedeva niente, tornammo giù…
La banda di Montebello
La banda di Montebello si formò dal nulla. Io andai su con Ivo Giacchi. Anche lui non voleva entrare nella “Bilinciana” [la Guardia Nazionale Repubblicana fascista]. Lui aveva dei parenti a Castelguelfo, i Caselli. Uno di essi, Italo, poi ci fece da staffetta con Città di Castello, perché aveva uno spaccio a Castelguelfo e veniva a Città di Castello per rifornirsi al mercato. Io e Ivo tornammo giù una prima volta e ripartimmo con Mimmo Gambuli. Le nostre due famiglie, di tradizione antifascista, erano molto amiche. All’inizio non si sapeva che fare e dove andare.
Francesco Ascani era già lassù sfollato, ma si aggregò a noi.
Come si ampliò il gruppo? Una volta mentre scendevamo verso Città di Castello incontrammo Pasqualino Pannacci. Si dava da fare con il commercio delle uova; non aveva famiglia, era orfano. Decise di venire con noi. All’inizio, per un paio di volte, fece il collegamento, poi lo individuarono. Venne su una notte con 30 chili di munizioni.
Inizialmente eravamo Francesco Ascani, io, Mimmo e Gastone Gambuli, Pasqualino dopo un po’, “Casso” e “Cassini” di Apecchio e due del Piobbico. Si stette a Castelguelfo qualche giorno.
Restammo in una casina disabitata a Montebello, eravamo in 12 o 14. La prima elezione alla Montebello avvenne prima della costituzione della “San Faustino”. Decidemmo che uno doveva rappresentare tutti. Scrivemmo i nomi in dei foglietti e li buttammo in un cappello. Io ottenni tutti i voti meno uno. Mimmo fu eletto vicecomandante. Tutte le decisioni noi le prendevamo collegialmente.
I contatti con Castello li tenemmo per un po’ tramite Ivo Carletti e Italone Caselli. Ivo era impiegato alla ferrovia. Caselli, per fargli capire che era una nostro emissario, diceva: “Tre biglietti e mezzo per Canoscio”; e Ivo: “Per Canoscio sono finiti”; “Allora me ne dia uno per Arezzo”. Poi anche Carletti venne su.
Narducci, Benedetti e Bambini scapparono dalla “Bilinciana” dopo la fucilazione di Gabriotti, portando via le armi e le munizioni. Si erano messi d’accordo con noi dopo il loro arruolamento.
Una delle prime azioni come banda di Montebello fu il disarmo della DICAT a Bocca Serriola, ma avevano solo due pistole.
Quando ci fu il rastrellamento causato dal tradimento di Paciotti, a febbraio, non toccò la zona di Valdescura. Nemmeno sognavano che esisteva il nostro gruppo.
C’era anche qualche cattolico con noi, il maestro Mario Berretti.
La Brigata Proletaria d’Urto “San Faustino”
Un giorno vennero a Montebello Stelio Pierangeli e Mario Bonfigli e chiesero di coordinare i gruppi, pur lasciando a ciascuno la propria autonomia. L’incontro tra i rappresentanti dei gruppi avvenne su di un prato a Castelguelfo. C’erano in vista gli sganci di rifornimenti da parte degli Alleati. Nacque allora la Brigata. Il gruppo di Perugia era di tendenza liberale. Pierangeli insistette che la Brigata si chiamasse “Proletaria d’Urto”, loro la volevano chiamare solo Brigata. Per noi del battaglione “Montebello” (poi “Gabriotti”), quelli di Perugia, i Biagiotti, i Bonfigli, i Beppe Bonucci, rappresentavano un gruppo d’èlite, l’aristocrazia. Noi eravamo dei “freghi”. E poi non ci si poteva ancora fidare, non ci si conosceva; ecco perché volemmo restare autonomi. Solo dopo siamo diventati amici, quando abbiamo cominciato a combattere insieme.
Stelio Pierangeli aveva un buon ascendente sulla Brigata. Aveva dodici anni più di noi, era di cultura, avvocato, ufficiale. Sapeva mediare, non s’incazzava mai, parlava poco. Era di solidi principi. Suo padre lo rivoleva a Castello, ma lui restò in montagna.
Il commissario politico era Dario Taba, un vecchio comunista tutto d’un pezzo. Aveva una cultura politica e un’esperienza che noi freghi non si poteva far altro che starlo ad ascoltare: non potevamo nemmeno rispondergli. Taba era un fuoriuscito. I suoi rilievi nei confronti della Brigata non valevano certo per la “Montebello”, dove c’era democrazia interna e organizzazione. Taba venne su due volte. Gli dicemmo di rispettare la nostra apoliticità. Taba parlava, parlava. Aveva un fascino particolare, sapeva parlare…
I contatti con gli alleati li tenevamo tramite il tenente dei Carabinieri Maurizio Bufalini. Era Ascani, il tipografo, che andava a Firenze per vedere Bufalini che era in servizio là. Questo contatto andò in crisi con i rastrellamenti.
Inizialmente l’armamento era scarsissimo: un fucile austriaco di proprietà di un contadino (facemmo a cambio con una doppietta), due pistole a tamburo dei carabinieri e una machine-pistole. In seguito riuscimmo a far fregare anche qualche arma all’officina della SOGEMA, dove i tedeschi le facevano riparare.
Il comando della Brigata è sempre stato a Caimattei, dopo il rastrellamento causato da Paciotti. Pierangeli stava a Caimattei.
L’aiuto dei contadini
Il battaglione Montebello era il meglio organizzato anche perché poteva contare sull’appoggio totale attivo dei contadini. Riguardo alla protezione e all’aiuto logistico dato dai contadini, c’è da dire che nulla passava loro inosservato di quanto avveniva nella zona. Eravamo avvertiti di tutto per tempo. Oltre a costituire un prezioso filtro di informazioni essi magnificarono anche la nostra forza agli occhi dei tedeschi. Si finsero impauriti dal nostro potenziale militare.
Gervasio è stato il personaggio più affascinante. Un giorno disse: “Stanotte son passati 12 tedeschi e 3 cavalli”. E noi: “E come fai ad essere sicuro se era tanto buio?”. Ci spiegò che aveva cosparso la strada di polvere e che era così riuscito a contare le tracce lasciate dai tedeschi. Un’altra notte volle fare il furbo: siccome ci aveva aiutato giorni prima a preparare i tre falò incavati a triangolo per segnalare il posto dello sgancio agli Alleati, mentre noi eravamo impegnati a fuggire al rastrellamento, tentò di ripetere la cosa per farsi sganciare altro materiale. Quando sentì arrivare una “cicogna” accese i fuochi: bene gli andò, perché si trattava di un aereo tedesco e gettò delle bombe che però non lo colpirono.
I Valentini di Valdescura
Olinto Valentini era un vecchio socialista passato al PCI già nel 1921. Suo padre, Patrizio, era il patriarca. Olinto dovette anche emigrare per le persecuzioni dei fascisti. Le famiglie Valentini di Valdescura sono stati partigiani con noi, uomini e donne. Il gruppo di Montebello era di fatto già formato. Patrizio faceva il mugnaio-contadino, non ci ha fatto mai mancare il pane. Le donne erano partigiane attive. Quando i tedeschi vennero a bruciare Montebello, loro spegnevano il fuoco della casa nonostante che i soldati fossero a 200 metri. Loro ci facevano da staffetta con i paesi vicini, con la scusa di andare al mercato o a fare la spesa. Un’organizzazione perfetta… Noi sapevamo come barcamenarci. Quando si andava a Valdescura tutti andavano a dormire sul capanno, e ci lasciavano i letti: “Cazzo, pe’ nna volta che venite a dormì!”
Il figliolo di Valentini andò poi con la 5ª Garibaldi, perché era comunista, mentre il nostro gruppo no.
I Valentini dovevano portare la roba all’ammasso. Quando gli arrivava la cartolina che la dovevano portare a Pietralunga, ma la roba l’avevamo mangiata tutta noialtri, andavano giù con la cartolina e dicevano: “Io vel do el grano, cocchi, ma venite a piallo. Cinque posti de blocco…”. E i fascisti: “Ma ci sono anche i cannoni?”; “Questo nn el so, c’èn tutte le frasche, dietro che c’è n se sa. Le mitragliatrici siguro. Ogni tanto se sente sparè. Se volete el grano, venitelo a pigliè, io mm me la sento, anche perché c’han detto che si manca anche n chicco… È brèllo de partigiani su quele cime”.
La spia Marion Heller
Un giorno capitò una bella donna, Marion. Dopo due giorni ci raccontò che era entrata in Italia con il servizio segreto francese e che successivamente era stata imprigionata da Armando Rocchi. Questi la liberò sotto la promessa che lei si sarebbe infiltrata tra i partigiani come spia. Il fatto che ci avesse raccontato questa storia non ci fece diminuire la prudenza: la considerammo nostra prigioniera, anche se con il dovuto rispetto. Mi ha insegnato un po’ d’inglese. Quando andava a lavarsi al fiume era uno spettacolo: siccome si denudava, questo costituiva uno spettacolo imperdibile per i contadini. Anche lei però aveva paura. Sapeva di avere una storia poco limpida: la minimaaccusa di essere una spia l’avrebbe portata alla fucilazione. A scanso di equivoci dormiva sempre vicino a me e a Mimmo: si fidava meno degli altri. Temeva di essere consegnata agli Alleati e ci pregava di non farlo. In seguito la lasciammo a Valdescura: avrebbero badato a lei le donne del villaggio. Poi andò a finire con la 5ª Garibaldi. Non so perché, ma la fucilarono. Forse non si “prestò” al corteggiamento di qualcuno…
Il rastrellamento di maggio e i montenegrini della “Stalingrado”
Con il rastrellamento di maggio decidemmo di andarcene, per non compromettere i contadini. Tutte le staffette dei contadini ci dicevano che l’unica via di salvezza era per la Cima [Bocca Serriola]. Durante il rastrellamento, incontrammo a Scalocchio il Battaglione Stalingrado della 5ª Garibaldi. Loro erano slavi, montenegrini, sfuggiti ad un campo di concentramento vicino ad Anghiari: gente preparata, di cultura, decisa e dura. I fascisti li fucilavano senza pietà. Il commissario politico si chiamava Radomir e il capo militare “Baffo”. Erano partigiani veri. Quando si spartiva il cibo mettevano il bottiglione del vino e il pane sul tavolo e dicevano: “Oggi compagni, mezzo bicchiere di vino e un pezzo di pane per ciascuno”. E nessuno osava prenderne di più. Tra di loro c’era un tifernate, Armando Perugini, il pittore.
Ci fu una grossa battaglia a Citerna di Scalocchio contro i tedeschi. I tedeschi portarono via i loro morti con le tregge; noi perdemmo solo un cavallo. I montenegrini ci dettero da tenere una posizione mentre loro ripiegavano. Fu questo nostro contributo che ci guadagnò la loro stima. Mi dettero un encomio solenne come comandante del gruppo Montebello. “Montebello Dobro – bravo”. La battaglia durò un’intera mattinata. Elogi, abbracci, quando si andò via ci dettero i viveri. Tutta la Garibaldi schierata a quadrato solennemente, mentre Radomir e Baffo si congratulavano con noi. Ci presero a benvolere a noi della “Montebello”. Però erano diffidenti nei confronti della Brigata “San Faustino”. Loro erano tutti comunisti. Noi non se ne sapeva un cazzo di politica. Ci consideravano badogliani, ma non era vero.
I montenegrini si erano intanto ricongiunti con il resto della Garibaldi, in ripiegamento verso l’Alpe della Luna. Anche noi ci dirigemmo verso il Monte della Luna, con tutta la 5ª Garibaldi. Ci riducemmo in 13. Gli altri di Città di Castello vennero su dopo il rastrellamento.
A giugno a Montemaggiore
A giugno, dopo la sospensione dell’azione su Perugia, ogni gruppo della “San Faustino” decise di tornare dalle sue parti. Noi muovemmo verso Città di Castello. Per la “strada dei montagnini” incontrammo don Vincenzo Pieggi sul baroccio di Mazzanghino. Ci venne incontro per avvertirci che Città di Castello era piena di tedeschi. Restammo per diverso tempo vicino a Montemaggiore. Lì subimmo un nuovo rastrellamento. I tedeschi presero Bacinelli, ma non era dei nostri… Cercammo di proporre uno scambio di prigionieri. Noi avevamo “Gnaffe”, un maresciallo armaiolo tedesco, che aveva familiarizzato con noi
Battaglia di Pietralunga
Poi andammo a Pietralunga, poi arrivarono gli inglesi. Noi eravamo con gli inglesi. Fummo assediati dai tedeschi, ci bombardarono. Allora morì Enrico “il Polacchino”. Il Polacchino era un disertore dei tedeschi, giovanissimo. Morì a Pietralunga.
Disarmo della “San Faustino”
Ritirati da Pietralunga, mentre gli inglesi a loro volta assediavano Pietralunga, ci caricarono tutti e ci portarono a Umbertide, ci disarmarono. Fine della guerra. Non si fidavano di nessuno. Ci incazzammo. Noi volevamo andare a Città di Castello. Poi, per interessamento di Luigi Peano e del gruppo di Perugia ci mandarono nella tenuta della Facoltà di Agraria a Casilina.
Le foto [il gruppo fotografico della “San Faustino” e i ritratti dei partigiani] sono state fatte a Casilina, vicino a Deruta, quando la brigata è stata sciolta. Io non c’ero perché ero già stato nominato Commissario di Pubblica Sicurezza a Castiglion del Lago dal questore Guerrizio. Un’esperienza difficile perché ero giovane e inesperto. La Brigata aveva passato il fronte presso Umbertide; Castello era ancora occupata. Fummo subito disarmati dagli alleati: ci avevano sempre snobbato, non ci credevano in noi.
Venanzio Gabriotti
Lo vedevo di tanto in tanto, in vescovado, al Duomo, ma lui era già grande ed io ragazzotto. Io frequentavo il circolo di Pieggi a San Giovanni in Campo. Sapevo che era antifascista. Lo sapevano tutti: lui e Giulio Pierangeli. Come giovane, questo personaggio mi affascinava. Camminava all’apparenza un po’ svampito. Non ti dava confidenza perché eravamo freghi.
Stavo andando da lui in vescovado. L’ho incontrato nel Corso degli Ebrei, in corso Cavour, di fronte alla “Feffa”. Lo fermai: “Io so che lei è introdotto, sa qualcosa…” Mi rispose: “Senti, fiólo, io non so niente, però… prova ad andè su di lì, in montagna, qualcuno c’è, però non te so dì gnente, anche perché l’hanno arrestati tutti…”
Effettivamente non ne poteva sapere di più in quel periodo. Non lo disse in alcun modo in forma scocciata. Anzi ci qualificò come “bravi fióli”. Non la fece molto lunga perché non si voleva sbilanciare troppo. Nemmeno si guardava intorno in forma sospettosa mentre parlava con me. Non prendeva tante precauzioni.
Poi lo rividi a Montebello la vigilia del 1° maggio 1944. Passò di lì la mattina per andare a Pietralunga. Era di passaggio. Andava a Morena e Pietralunga. Non raccontò niente. Ci tirò su di morale. Chiese come stavamo e disse: “Vedrete, ragazzi, vinceremo…”. Era tutto euforico, contento. Rimase poco con noi, un’oretta, poi con Pasqualino o con Terzo andò a Morena.
Non mi ricordo che siano stati implicati fascisti di Città di Castello nella fucilazione di Gabriotti. Non l’ho mai sentito dire. Lo chiesi allora a “Pinze” (Narducci) e ad Amleto Bambini, che erano stati nella Milizia fino a quel periodo, ma non me lo confermarono. Non mi risulta che ci fossero di Città di Castello.
Mia mamma Gina vide passare Gabriotti quella mattina. Andava alla Messa alla Madonna delle Grazie e incontrò Gabriotti insieme a due fascisti che lo accompagnavano dalla prigione alla GIL. Mi disse che non li conosceva. Dopo la mia mamma, saputo alla fine della messa della fucilazione, prese un canestro e la falce e fece finta di andare a fare l’erba per i conigli. Andò lungo il fiume e vide che il grosso era già andato via. Lì c’era la chiusa del molino di Gavere e il Bronchino le disse: “C’è un morto lassù, dite che lo vengano a prendere”.
Testimonianze raccolte da Alvaro Tacchini nell’ottobre 1986, nel novembre 1987, nel marzo 1991 e nel settembre 1998. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
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