Mastriforti Amedeo. Il Comitato Clandestino di Soccorso di Città di Castello

Mastriforti (1914-2011), insegnante ed esponente dell’ambiente cattolico tifernate, fu collaboratore di Venanzio Gabriotti ed esponente del Comitato Clandestino di Soccorso. Dopo la Liberazione, si arruolò volontario nel Gruppo di Combattimento “Cremona”.

 

 

Appunti sul Comitato Clandestino di Liberazione.

Città di Castello

Testimonianza scritta inviatami nel dicembre 1987 da Pesaro

Venanzio Gabriotti: l’eroe
Dopo la fine della prima guerra mondiale, Gabriotti, fra i numerosi reduci di Città di Castello, era considerato uno dei più prestigiosi combattenti per i suoi eroismi “spregiudicati” e sempre pericolosi nelle azioni di guerra, che lo avevano ricoperto di decorazioni. Direi che la sua figura era ormai passata nella “leggenda”. Noi ragazzi lo abbiamo conosciuto in questa configurazione “emblematica”: il combattente dalle molte decorazioni! Ecco come anch’io lo conobbi dopo gli anni Venti. Una conoscenza reiterata, giornaliera, fatta d’incontri e di indicazioni meravigliate. Il clima del fascismo, con l’apologia del combattente, non faceva che arricchire, nella mia fantasia, l’apice della gloria guerriera. Ma invero Gabriotti era in posizioni del tutto avverse al fascismo.
Gabriotti: la sua generosità
Anche nel feroce scontro con l’avv. Catrani (scontro degenerato ben presto in volgare vilipendio) noi ragazzi di famiglie tendenzialmente antifasciste, forse travisammo i discorsi degli adulti quando dicevamo che “Il colonnello avrebbe fatto cento duelli, all’ultimo sangue, contro lo sfidante Catrani, se il vescovo mons. Liviero non glielo avesse proibito!” A noi, ed a me in particolare, faceva impressione, la sua pronta, sempre, completa disponibilità a chi avesse bisogno di lui. Non c’era venerdì (giorno ormai tacitamente stabilito in città per la questua) che il suo ufficio non rigurgitasse di bisognosi. Tutti, infine, uscivano contenti e senza sapere “come” lui avesse fatto. Cito un mio episodio di molti anni dopo. In mancanza di determinati testi, a me necessari per il completamento della tesi, ma introvabili, pensai di rivolgermi a lui. Non so quale avverbio usare, ma “rocambolescamente” li trovò tutti e subito. Mi disse ridendo, com’era solito: “Una sciocchezza!” Io ci aveva perso dei mesi in quella sciocchezza!
Preparazione del Comitato Clandestino e profilo dei componenti
Negli ultimi tempi della seconda guerra mondiale ’40-’45, quando si prevedeva la fine imminente e terribile, intensificò il suo antifascismo nell’affaccendarsi per l’organizzazione di gruppi antifascisti. Ne parlava a volte senza riguardi ma lo tempravano i richiami degli amici, in definitiva anche loro implicati. Come collaboratori scelse i più fidati e scelse anche me. E con l’abilità e la celerità sue proprie, mi convinse ad avvertire delle persone notoriamente antifasciste, sicure, e a convocarle in una riunione segretissima, per la costruzione di un Comitato Clandestino di Liberazione. Aveva parlato della cosa a De Gasperi e a Cingolani in una adunanza segreta, in Perugia. Quando gli domandai dove dovevano riunirci, come sempre sorridendo mi rispose: “In casa tua, no!” E in quel sorriso c’era tutto lui! Io mi misi all’opera e parlai ad uno ad uno con quelli che erano stati segnalati. Accettarono tutti con consapevolezza e fermezza. Ci ritrovammo due volte – se non vado errato – in luoghi diversi. Anche nel cortile sotto l’odierna casa dell’Azione Cattolica, a fianco della cattedrale. Ma la riunione che Gabriotti chiamò “storica” fu quella del 4-4-’44, alle ore sedici. Arrivarono da me, che in trepida attesa, soprattutto per i miei familiari; primo Gabriotti (aveva ancora venticinque giorni di vita) poi:
Aldo Bologni, carissimo fra tutti gli amici, giovane intelligente, deciso in tutte le iniziative che sapeva sempre e “miracolosamente” sintetizzare nel fattibile. Scartava l’inutile, che considerava “motivo di dubbio”. Era in divisa da ufficiale. Così lo ricordo. Per me: un eroe purissimo, come i grandi spiriti del Risorgimento, senza macchia e senza paura, neanche un furtivo accenno alla grave malattia del padre. Eroe purissimo – ripeto – in costante offerta della vita per un ideale sublime. (Aveva ancora venti giorni appena di vita). La morte lo trovò così, in questo atteggiamento dignitoso e dispettoso, dantesco. Morte, dove fu la tua vittoria? Tu fosti l’apoteosi di una grande anima!
Giuseppe Antoniucci, uno dei più noti antifascisti castellani. Una sola idea: il Marxismo. Un solo nemico: il Fascismo! Una sola fede: la Fratellanza ideale! Ecco l’uomo Antoniucci. Di lui non saprei dire di più. Però sento come avessi detto tutto. Anzi. Meglio, voglio aggiungere un dubbio nel chiudere: io, cattolico praticante, non ho saputo mai convincermi, se la mia fede nel Trascendente sia stata sempre un ideale luminoso, come la sua nell’Immanente. Quando uscì mi accarezzò come a suo figlio e mi mormorò: “Che comunista che saresti! Con noi. Ne riparleremo!” Non lo rividi mai più! (La morte lo attese per novantasette giorni ancora da quella sera!)
Ivo Carletti. Eravamo amici di un’amicizia pratica, più che ideologica. Ci trovammo con un messaggio nuovo, non più con le quisquilie dei rapporti quotidiani e dei giorni allegri, ma con la decisione di essere pronti a rischiare tutto, anche la nostra vita e quella “sacra” dei nostri familiari, per un ideale di “giustizia e libertà”. Con una stretta di mano, ci capimmo. Ed entrò con me, nel mondo del pericolo.
Donino Donini. L’autorevole, prestigioso, ascoltato portavoce della Democrazia Cristiana “ante litteram” e dell’ala cattolica, nel Comitato. Fu per me una meraviglia o forse un rimprovero quando mi domandò a bruciapelo “se io malauguratamente avessi pensato di escluderlo!” Di lui che dire? Tutti lo sanno che è stato uomo integerrimo, professionista esemplare. Che altro? Che per me è stato un grande maestro di vita. E non per me solo!
Forconi Cola. Di lui dirò che fu fra tutti noi il più grande per coraggio e per intelligenza. Venne catturato a Fraccano, nello stesso giorno e nelle stesse ore in cui fu fucilato Gabriotti. Mi avvertì la prof. Livia Godioli. Non sapevo nulla. Mi disse che era stato catturato dai fascisti e dai tedeschi e che le aveva fatto avere, non sapeva nemmeno lei proprio come, da uno sconosciuto, un biglietto per me. Una sola frase: “Io non ho parlato, non parlate nemmeno voi!!” La Livia mi raccontò che l’avevano minacciato perché rivelasse i nomi dei membri del Comitato, lo avevano portato due volte davanti al plotone di esecuzione, ma lui era restato impavido e muto. Se le vicende dolorose del dopoguerra non avessero stravolto tutti i grandi ideali della Resistenza, oggi vedremmo ricordato Cola Forconi in molte parte d’Italia. Invece vive solo nella religione delle nostre memorie.
Forconi Teodorico. L’anziano padre di Cola, antifascista da sempre, da sempre vittima del fascismo. Direttori didattici settari, come il direttore Briziarelli lo perseguitarono senza pietà, rendendogli la sua vita un calvario. La sua grandezza d’animo lo fece resistere a tutte le avversità e combattere contro i suoi colleghi più meschini, come Saturnini, Brunelli ecc. Grandezza d’animo che fu un miracolo d’amore per la giustizia contro tutte le ingiustizie del tempo.
Giuseppe Segreto. Il vecchio e amato professore, sempre caustico contro il fascismo. Vittima di questo stato d’animo, dovette fuggire di città in città ed elemosinare un insegnamento che trovò fraternamente nelle Scuole private del comm. Meroni. Con tutte le sue energie, con tutti i suoi mezzi animò il Comitato ed assistette i partigiani combattenti per le vie più impensate ed efficaci.
Giovanni Taffini. Operaio, intelligente ed audace, dopo una vita turbinosa: aveva combattuto in Algeria, con le bande di Abdel-Kerim (?) o contro (?) era rientrato in Italia con l’interessamento di Gabriotti che aveva mosso nientemeno la diplomazia vaticana. (Notizie di cui ricordo vagamente il filo. Interpellare il figlio?!). Si distinse in mezzo a noi per le sue proposte idealistiche e pericolosissime. Non ultima, per esempio, il sequestro del centurione della milizia Gambuli, d’infausta memoria. Voleva attuare questa “impresa” da solo o con due suoi amici: Pasqualino Pannacci e Lallo.
La mia scelta antifascista
Il mio antifascismo, anche se non eclatante, determinato prima da un’educazione familiare, si era via via consolidato con lo studio, con la frequenza al ginnasio dove il prof. Alunno faceva aperta professione di antifascismo, con l’amicizia del prof. Segreto, del prof. De Pinto e dell’avv. Pillitu. E specialmente del comm. Meroni che “accoglieva” tutti i professori rifiutati dal fascismo perché ostili e non tesserati. Nel 1931 fui contro il famigerato Dodo Tommasini Matteucci che con altri sciocchi scalmanati perseguitava l’Azione Cattolica e in piazza Matteotti schiaffeggiò Angelo Franchi, malatissimo di TBC, fratello del più noto antifascista Maurizio, il quale si gettò alla difesa del fratello malmenando la cricca della quale facevano parte “personaggi” che, oggi, credono quello un fatto ormai dimenticato! Io presi uno schiaffo dal noto squadrista Niccolini. Pippo Niccolini! Dopo la guerra diventammo molto amici e “ridevamo” su quelle squallide sciagure fasciste.
Dopo l’otto settembre Gabriotti si preoccupò della coscrizione obbligatoria per tutti i giovani nelle file dei militi “repubblichini”. Fu il primo motivo che lo spinse alla costituzione del Comitato. D’altronde in città spadroneggiavano spavaldamente, mitra e fucili imbracciati, sparatorie e deterrenti all’impazzata, molti giovani nostri concittadini come Novemio Braccardi, Zangarelli, Biagini, Pierleoni, Marsili, Nardi, Carleschi, Veneziani, Tavernelli, ecc. In più c’erano degli sprovveduti propagandisti per il tesseramento al fascio repubblicano di Salò, come i fratelli Lello e Giovanni Valori, con i quali io ebbi anche qualche parola dura, pur amicissimi come eravamo. In me ora la tendenza antifascista era divenuta opinione consapevole e combattiva.
La riunione del Comitato Clandestino
La prima vera e propria riunione fu concitata. Gabriotti era stato dai partigiani di Monte Nerone: avevano bisogno di tutto. Incaricò me di raccogliere soldi che io sempre consegnai a lui, molte migliaia di lire e per quei tempi erano tesori. Vestiario medicinali ed altro, tutto in casa mia. Poi lui trovava sempre modo di far recapitare a destinazione tutto. Non c’era tempo per le spiegazioni su come facesse! Se si pensa al nostro stato d’animo ed al terrore che – diciamo la verità! – sentivamo come una paralisi spirituale gelida dentro di noi, allora si può capire come le mansioni, gli ordini, i consigli fossero dati e detti in un battibaleno. Non so: chi va domattina a cercare di sapere dove si trova il centurione Gambuli? Ci vai tu! Tu, invece cercherai di sapere che cosa succede al comando, da Pietro Brighigna. Tu per tutta la settimana leggi i giornali fascisti e ci farai un resoconto scritto… ecc.
Il prof. Bistarelli, pur nell’altra sponda, era mio carissimo amico e mi avvertì che il guercio Puletti aveva saputo qualche cosa. Infatti mi mandò a chiamare e mi sottopose ad una specie di interrogatorio eristico a cui io, però, risposi con affermazioni surrettizie e svagate. In queste circostanze anche i nostri buoni voleri erano frustrati ed i compiti ritardati, confusi, soppressi. Piuttosto riservate le nostre “fisionomie” politiche, non vedendo il caso di parlarne in quella stretta finale della resistenza. Comunque era ben chiaro che Gabriotti, Donini ed io eravamo – se si può dire – democristiani “ante-litteram”; Antoniucci e Taffini, comunisti; Segreto, massone della loggia di Perugia governata dal noto provveditore agli studi Valitutti, oggi liberale; ma oltre che massone si professava repubblicano; i Forconi, socialisti; Carletti del partito d’Azione e Bologni filo-liberale (così ricordo).
In quanto all’invio di materiale ai partigiani, ci servivamo di svariati canali, mai di una rete organica prestabilita. Io ero amico del fattore Cenesi della “tenuta” Benvenuti alla Cima di Caifirenze e fui suo ospite più volte e per molto tempo. Da lì, mi recai ad Apecchio, a Castelguelfo, ma sbrigai poche e piccole cose. Il parroco della Cima don Ceccarelli (?) era molto amico dei partigiani e credo che dette un solido aiuto sempre a tutti. La sera ci trovavamo e ridevamo anche delle nostre pericolose situazioni. Una sera mi raccontò che un partigiano armato era andato da un contadino a chiedere due agnelli, giù a Coacri. Chi paga? domandò il contadino. Il partigiano presentò un ordine ed esclamò: Il commissario del popolo! Il contadino non fiatò, ma s’accorse che la parola “agnelli” era stata scritta male così: “angelli”. Allora restituì l’ordine al ragazzo e aggiunse: “Dì al commissario del popolo, che, io questi animali non li tengo!” E lo rimandò al comando! A braccia vuote!
Intanto il materiale era sempre meno ed io, in casa mia, ormai non avevo che qualche pacco di viveri e di medicinali. L’aviazione inglese aveva iniziato a rifornire la brigata, per fortuna, di armi e di viveri ed avvertiva il momento del lancio con un messaggio radiofonico da “radio Londra”: “Abbi fede!” Quando la radio annunciava il messaggio, noi avevamo ancora un po’ di buon umore per scherzare: “Abbi fede!” Sì, ma butta giù!
Arresto e morte di Gabriotti
Anche Gabriotti era finito, il suo tono calato. Non si era mai arrestato dall’Oltretevere al Nerone; era dovunque, ormai pensava a tutto lui e sopperiva per tutti noi. Il suo arresto ci sgomentò ma non ci sorprese! Tuttavia per il Comitato fu la caduta della colonna portante dell’intero edificio. Io ebbi la vaga idea di essere su una nave, dove il capitano avesse gridato il “si salvi chi può!” Non ci rivedemmo più né con lui, né con Bologni, né con Antoniucci. Gabriotti fu arrestato la mattina, nel suo ufficio, su ingiunzione del comandante Pietro Brighigna, da due militi, uno era Pierleoni, il figlio del conte Pierleoni. Tutti capirono che non c’era più niente da fare. La sollecitudine del Vescovo, mons. Cipriani e l’affettuosa tenacia di mons. Pieggi a nulla valsero contro la feroce protervia del Tenente Faro, che volle l’onore di comandare il plotone di esecuzione. Nel processo che Faro ebbe dopo la guerra, invocò la presenza del Comandante Stelio Pierangeli. Il quale con quella sua grande magnanimità che lo distingueva in tutto, andò e lo scagionò nei limiti del possibile e del giusto. L’ultima notte di Gabriotti è riportata nelle memorie del Cap. Nardi, valoroso ufficiale partigiano nell’Oltretevere, arrestato dai fascisti e rinchiuso nella stessa cella di Gabriotti. La mattina del 9 maggio, per una strana telepatia che non so spiegare, mi recai alle sei del mattino in Piazza Raffaello Sanzio. Lui passò in mezzo al plotone di esecuzione e a molti altri militi. Vicino al monumento del Palazzi, tentai di farmi vedere, senza espormi, ma lui non se ne accorse affatto, tutto chiuso nel suo gabardine chiaro, mentre i militi cantavano le loro canzoni di guerra.
Disgregazione del Comitato dopo la morte di Gabriotti
Dopo la morte di Gabriotti (il prof. Polenzani la stessa sera (?) mi disse che o lui o la sua mamma, di ritorno dalla messa, avevano incontrato quel drappello di masnadieri che cantava e conduceva alla fucilazione Gabriotti), Forconi era sempre in mano ai tedeschi, il padre distrutto dal dolore insieme con i suoi familiari, io ritornai alla Cima e mi misi a disposizione di Pierangeli e Livio della Ragione il più benvoluto e il più stimato comandante di tutta la Brigata. Lo stesso fecero Taffini, Carletti. Donini e Segreto ormai palesemente incriminati si rifugiarono presso amici sicuri.
Altri ricordi
L’intesa con la “Pio Borri” fu esclusiva mansione di Gabriotti. Ma io penso che sia stata limitata perché avviata e governata da ottimi organizzatori.
I rapporti dell’Avv. Pierangeli con il figlio Stelio sono molto oscuri. Almeno per me. Io so di una lettera del padre recapitata al figlio da Giudizi, in cui lo invitava a ritornare in città, perché la repubblica di Salò avrebbe concesso l’amnistia a tutti i “ribelli” che fossero rientrati. Altre fonti dicevano che il padre lo invitava a tener duro contro il fascismo, pur sapendolo gravemente ferito ad una spalla, e a non lasciare per nulla il comando della Brigata.
Al numero unico “Rinascita” – se ben ricordo – io dovrei aver dato una lettera che l’On. Sforza aveva fatto recapitare dall’America, di nascosto, a tutti i patrioti italiani e che io avevo già passato agli amici.
P.S. Stelio Pierangeli mi disse che aveva una lettera del Comitato inglese dove tra l’altro c’era scritto, riferendosi naturalmente anche a Gabriotti, la “Brigata Proletaria d’urto” era stata la brigata che aveva chiesto di meno e aveva dato di più!