L’8 settembre 1943 Aldo Migliorati era militare a Vicenza. Quando si è sfasciato il suo reparto, anche lui si è dato alla fuga per cercare di tornare a casa. Ma è stata un’odissea: “Ci ho messo 20 giorni a tornare; ero ridotto 45 chili”.
Ventenne di Badia Petroia, Migliorati faceva il muratore con il padre Giuseppe. Una famiglia numerosa, la sua, nella quale si respirava una certa aria antifascista. Però a quei tempi non la si poteva esibire troppo. Suo padre durante la guerra fu denunciato per disfattismo, perché in un locale pubblico, a delle donne che piangevano, aveva detto, profeticamente: “Care donnine, avremo da piangere per tanti anni; e poi questa guerra si perde, e passerà anche di qui”.
Il ritorno in famiglia da Vicenza Aldo se lo godette poco. Gli dissero che carabinieri e fascisti lo cercavano da giorni. Così dovette subito scappare a Ghironzo, dalla nonna. Iniziava lassù la sua vita alla macchia. Ma non era il solo: “Lì mi sono ritrovato con Pio Moni, anche lui del ’24. I primi due della banda di Badia Petroia siamo stati noi”.
Con il passar dei mesi il gruppo di giovani renitenti alla leva e disertori che non ne volevano più sapere di combattere per tedeschi e fascisti crebbe di numero: “Nella banda della Badia, così si chiamava, alla fine siamo arrivati ad essere 40-45. Ma all’inizio eravamo parecchi di meno. Il nostro punto di riferimento era Ghironzo, ma si girava dappertutto, in quella zona, per sfuggire alle ricerche e per attaccare i fascisti. Non ci mancava niente per nasconderci; lo si trovava sempre un posto dai nostri contadini”.
Migliorati s’impose come l’indiscusso capobanda: “Comandavo io. I rapporti tra di noi erano amichevoli, perché ci si conosceva da prima della guerra. Io sono diventato comandante un po’ per il mio carattere – ero sempre il primo a espormi e a rischiare -, un po’ perché avevo fatto il militare qualche mese e avevo maggiore esperienza rispetto agli altri”.
Armarsi fu un problema. Lo risolsero andando a prendere dei fucili nascosti a Castiglion Fiorentino: “Mi dissero che in un pozzo erano nascoste delle armi, moschetti e altro. Ci andammo di notte con un barrocciaio di Morra, si chiamava Giotto. Ero con Luigi Splendorini e Santino Pulcinelli. Si caricarono tutti questi fucili e li portammo a Ghironzo”.
Poi seguirono diverse altre azioni per disarmare i militi fascisti. Attacchi che servivano non solo per prendere armi, ma pure per contendere ai fascisti il controllo del territorio, per farli sentire insicuri, per mostrare alla popolazione che il regime era agli sgoccioli. Come a Lugnano: “La caserma di Lugnano l’ho disarmata con i miei uomini. Si era una ventina, forse più. A bussare alla porta della caserma ci andai io, gli altri avevano tutti paura. Dentro c’erano 10-12 carabinieri, e ancora più fascisti. Ci dissero: ‘Noi non si apre a nessuno’. Risposi: ‘Aprite, perché noi abbiamo delle bombe tremende; se si fa esplodere una, va giù tutto il palazzo’. Ci mettemmo nascosti lì intorno ad aspettare, ma non uscivano. Poi ho insistito: ‘Se venite fuori, vi si manda subito a casa, senza altri problemi per voi’. Allora uscì prima il maresciallo, con gli altri carabinieri, poi i fascisti. Per portare via le loro armi, era con noi il solito barrocciaio di Morra”.
Altri fascisti, Migliorati li disarmò vicino a Ronti e a Gioiello. Azioni di disarmo che si conclusero senza spargimento di sangue fratricida. Né si voleva spargere sangue tedesco: “Si aveva paura di provocare le loro rappresaglie: dieci italiani fucilati per un tedesco ammazzato. Ci siamo stati sempre attenti, non come la banda di Morra, che lì a Ronti ne ammazzò uno e rischiò di scatenare la rappresaglia contro la gente del posto. Noialtri ai tedeschi non abbiamo mai sparato. Qualcuno l’abbiamo fatto prigioniero e l’abbiamo portato a Monte Favalto”.
Su a Monte Favalto c’era il quartier generale della Brigata partigiana “Pio Borri”, le cui bande operavano nella zona di Arezzo e sull’Appennino tosco-umbro. Vi funzionava pure un ospedaletto e un campo di concentramento per prigionieri tedeschi e fascisti. Anche la banda di Badia Petroia era collegata alla “Pio Borri” e il diretto superiore di Migliorati era Aldo Verdelli.
La “Pio Borri” talvolta chiedeva alle bande di operare congiuntamente: “Mi giunse ordine da Aldo Verdelli di portare tutti i miei uomini verso Cortona, perché c’era da buttare giù il ponte della Cerventosa, per non fare passare i tedeschi. Ci siamo trovati con tutta la banda Valli, di quella zona. La loro era grossa, la banda; saranno state una cinquantina di persone. C’erano di tutte le razze: tedeschi disertori, inglesi, francesi… A piazzare le mine erano dei partigiani stranieri, che ci sapevano fare. C’è voluto per buttarlo giù tutto, quel ponte; abbiam lavorato dalla mattina alla sera”.
Poco dopo, un fatto imprevisto e drammatico: “Arriva un camion tedesco, a Portole. Sbuca dietro la curva. Gli hanno sparato gli stranieri della banda di Valli con la nostra mitragliatrice Breda. È finito sotto il burrone. Dopo un po’ quello che gli aveva tirato – così mi ha raccontato – è sceso a vedere se il tedesco era morto; se era solo ferito, voleva salvarlo. Ma mentre si avvicinava, s’è accorto che il tedesco aveva preso la pistola per sparargli, così lo ha ammazzato con un colpo sulla testa”.
La vita alla macchia era possibile solo perché i contadini, oltre ad aiutare a nascondersi e a non tradire, davano da mangiare: “Ce lo portavano le nostre famiglie, che abitavano lì vicino. Oppure lo si andava a prendere noi da loro. Ognuno di noi faceva riferimento alla sua famiglia. Ci si arrangiava un po’ così. Comunque abbiamo tribolato…” Talvolta venivano svuotati i depositi di grano del regime. Migliorati ricorda una requisizione che servì anche a distribuire il grano ai contadini: “Sulla piana di Canoscio c’erano tre silos, pieni di grano. Li abbiamo aperti e alla sera sono venuti i contadini, con i carri. Hanno portato via tutto. La mattina sono giunti una decina di fascisti. Hanno preso due giovani con un sacchettino di grano: il fratello e la sorella di Amedeo Bartolucci, un mio partigiano. Li hanno messi al muro e li hanno fatti stare a gambe larghe. Poi hanno sparato due colpi tra le loro gambe, per mettergli paura. La figliola, quando il fascista ha sparato, è cascata per terra dal terrore. Non s’è più ripresa ed è morta presto”.
Fare il partigiano esponeva anche le famiglie a gravi rischi. Subivano ritorsioni da parte del regime a livello di lavoro e rischiavano di perdere le tessere annonarie senza le quali non si potevano acquistare alimenti e beni di prima necessità; poi c’erano i tedeschi, che minacciavano di bruciare le case e di far fuori i parenti dei “banditi”. Anche la famiglia di Aldo Migliorati finì nel mirino. Racconta Aldo: “Arrivarono quattro macchine tedesche. Cercavano me. Due si fermarono alla Badia, misero una mitraglia sopra una finestra e cominciarono a mitragliare. Altri vennero a casa mia. Il mio fratello era a letto, saltò dal tetto, ma poi lo presero. Dopo hanno messo tutti in fila al muro, per ammazzarli: i miei genitori, il fratello e le sorelle”. Intanto Aldo, che stava a Ghironzo, ai primi spari era sceso giù a valle con un compagno e si era appostato a breve distanza da Badia Petroia: “Sentivo le urla dei miei, da far paura. Volevo andare su a mani in alto. Pensavo: ‘M’ammazzeranno, ma mio fratello non deve morire’. Però il mio compagno mi dice: ‘Se vai su, può darsi che ammazzano te e ammazzano loro. E poi, se li hanno già ammazzati?’”
Aldo dette retta al compagno. In effetti i tedeschi non uccisero nessuno. Ma suo fratello fu portato via, a San Secondo, dai fascisti che avevano accompagnato i tedeschi. Lo tennero in custodia con la corda al collo. Fu a quel punto che Migliorati mise in azione la sua banda: “Non sapevo dove si trovava mio fratello. La sera dissi ai miei uomini di sparpagliarsi e di andare a casa di tutte le famiglie degli ufficiali fascisti. L’ho mandati a dire che se facevano del male a mio fratello me la prendevo con le loro famiglie. La mattina dopo mi fecero sapere che mio fratello stava bene. Poi lo liberarono”.
La famiglia Migliorati scampò così il pericolo, che comunque lasciò brutte tracce: “Una mia sorella è rimasta traumatizzata per quel fatto”. Un’altra brutta traccia è l’aver poi constatato che il giovane fascista di Città di Castello il quale, insieme ai tedeschi, s’era mostrato più aggressivo verso i Migliorati, dopo la guerra non subì alcuna conseguenza per il suo comportamento.
Aldo Migliorati da anni vive in provincia di Pistoia, dove ha svolto la professione di imprenditore edile. Grazie a lui ora ne sappiamo di più della banda di Badia Petroia, della quale si avevano meno notizie rispetto alle altre della nostra zona. Mentre cerchiamo di ricostruirne i ranghi, Aldo ricorda quei suoi partigiani che furono i più attivi alla macchia: il cognato Michelangelo Borgese, l’ex carabiniere Vincenzo Canuti (“tra i più bravi, sapeva adoperare tutte le armi”), Carlo Carlicchi, Imolo Conti, Teodoro Corneli, Vincenzo Formichi, Pio Moni (“è stato sempre con me”), Zeno Pordoli (“un contadino tutto fare, ci ha dato tanto da mangiare”), Santino Pulcinelli (“partigiano vero, comandava una sua squadra”) e Luigi Splendorini (“uno che non aveva paura di niente”).
Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il6 agosto 2014 e pubblicata ne “L’altrapagina”, settembre 2014. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
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