Ruggeri Inno. Partigiani a Pietralunga

“Pietralunga era un paesetto tranquillo, si sapeva della guerra giusto per la radio. La prima volta che ho sentito l’allarme antiaereo è stato a Perugia, quando mi sono presentato per l’arruolamento”.
È il racconto di Inno Ruggeri, classe 1924, già partigiano della Brigata Proletaria d’Urto “San Faustino”. Figlio di un mugnaio repubblicano pietralunghese, che gli dette un nome di battesimo così particolare, Inno partì militare il 28 agosto 1943, quando il fascismo sembrava caduto e il governo Badoglio stava negoziando le condizioni della resa agli Alleati. Destinato a Genova, nell’attraversare Pisa fu testimone del terribile bombardamento che la colpì il 29 agosto: “Siamo scappati dal treno e abbiamo raggiunto una collina. Dopo poco arrivano i caccia, poi i bombardieri, con il loro rombo cupo. Hanno attaccato la ferrovia e la città. I morti…! Del treno dove si viaggiava non era rimasto niente; e così di 4 chilometri di linea ferroviaria”.
Inno si trovava a Genova l’8 settembre, quando giunse la notizia dell’armistizio. Seguirono ore concitate e le prime tensioni con i tedeschi. Poi la fuga: “Il pomeriggio aprono le porte della caserma; siamo scappati come le pecore giù per le scalinate di Genova”.
Con un viaggio difficile e rischioso riuscì a tornare verso casa. Per strada, si rese conto che lo sbandamento era generale: “Mentre si passava per le stazioni, gli altoparlanti dicevano in continuazione che i militari si dovevano ripresentare alle caserme; ma nessuno dava retta”.
A Pietralunga, Inno era ormai un disertore e con altri coetanei si nascose alla macchia. Aveva portato con sé un vecchio fucile ad avancarica, da caccia. Un giorno i carabinieri, che lo cercavano, trassero in arresto sua madre insieme alla Cancellieri, madre di un altro sbandato: “Noi ci s’era accordati di fermare il pullman la mattina, per liberarle. S’aveva già barricato la strada che va a Gubbio. Ma poi è intervenuto il prete di Pietralunga, don Pompilio Mandrelli, e ci ha chiesto di lasciare perdere, perché le rilasciavano presto. A Gubbio ce l’han tenute una settimana”.
La vicenda della mamma, le traversie del babbo mugnaio (in quel periodo preso di mira dalla finanza) e le difficoltà famigliari (il fratello più grande era prigioniero di guerra) indussero Inno a cedere e a tornare alle armi. Ma lo fece con l’intenzione di tagliare la corda il prima possibile. E così avvenne. Il giorno che scappò dalla caserma di Perugia, andò a prendere l’ultima corsa per Pietralunga Scalo, che all’epoca si raggiungeva con il treno della Ferrovia Appennino Centrale, lungo il tratto da Umbertide a Gubbio: “Quando alla stazione di Sant’Anna chiedo un biglietto per Pietralunga, sento un prete che dice, ‘ah, il paese dei ribelli!’. Mi si sono rizzati i capelli:  mi viene a fare queste battute là con la stazione piena di fascisti e di tedeschi…”
Era verso la metà di gennaio. Per un mese Inno si nascose a San Zino, presso dei parenti. Già sapeva che si stavano formando bande alla macchia, ma la stagione invernale e lo scarsissimo equipaggiamento impedivano ogni attività e inducevano ad attendere tempi migliori. Poi, a metà febbraio, si aggregò con altri pietralunghesi alla “San Faustino”: “Noi di 19-20 anni si aveva poca esperienza. Quelli che organizzavano erano i più grandi e chi aveva già fatto la guerra, come ufficiale o sottufficiale. Il mio comandante era Giovannino Valcelli; poi, tra i più grandi, c’erano Tullio Benigni, Pinetto Cancellieri, Italo Bani e Libero, il barbiere”.
Nella banda si instaurarono rapporti amichevoli e camerateschi, però con chiari ruoli gerarchici: “Ci si dava del tu, ma si aveva rispetto per i nostri superiori, per quelli che avevano studiato, per chi aveva una maggiore esperienza militare”.
Inno fu incaricato del trasporto con i muli, tra le varie basi della “San Faustino”, di tutto ciò che capitava. Anche del trasporto di quanto veniva requisito per i bisogni degli uomini alla macchia: “Mangiare bisognava mangiare. La povera gente ci dava da mangiare spontaneamente; qualche famiglia faceva il pane anche due volte la settimana per darcelo. Ma ai benestanti toccava prenderlo… Si prelevava grano, vino, qualche agnello. Una volta portammo via a un proprietario anche 1.500 uova. Si lasciava un biglietto, una ricevuta. Come reagivano i proprietari? Gusto non gli dava di sicuro! Ma stavano zitti, non protestava nessuno, non si potevano opporre”.
Con i suoi muli, Inno partecipò all’azione di Montone: “Non c’è stata nessuna sparatoria quando abbiamo disarmato la caserma della milizia fascista. Vi abbiamo trovato pochi militi. Hanno aperto, siamo entrati, abbiamo preso tutto quello che si poteva prendere e l’abbiamo caricato sui muli”.
Al termine dell’operazione, quando ci fu il fortuito incontro con i tedeschi che provocò la sparatoria nella quale perse la vita Aldo Bologni, Inno aveva già condotto i suoi muli oltre il luogo della battaglia.
Il suo racconto di una scaramuccia notturna contro i tedeschi presso lo scalo ferroviario di Pietralunga illustra come avvenivano queste azioni di attacco e sabotaggio: “Si era andati giù con quelli addetti a minare i ponti, tra cui Amedeo Lauro e Italo Bani. Avevano già fatto saltare altri ponti lungo la strada e la ferrovia da Umbertide a Gubbio. Lì alla staziona transitava un’autocolonna tedesca, tre o quattro camion; hanno trovato il ponte rotto e si sono dovuti fermare. Noi si era piazzati a una certa distanza e abbiamo attaccato a sparare. Quando hanno risposto al fuoco, ci siamo subito ritirati. Il nostro compito infatti era semplicemente di disturbare la loro avanzata, di mettergli paura”.
Le bande partigiane, inferiori in uomini e mezzi, si limitavano ad azioni di guerriglia, che comunque crearono non pochi problemi ai tedeschi, perché diffuse in tutto il territorio appenninico e in grado di rallentare e rendere insicuri le comunicazioni e il flusso di rifornimenti germanici.
Vi era pure consapevolezza del rischio di rappresaglie contro la popolazione che comportava attaccare i tedeschi: “I nostri comandanti si erano raccomandati che non si doveva fare le cavolate. Come a Gubbio, quando sono stati uccisi due ufficiali tedeschi senza una ragione militare. Ma quando li attaccavi e scoppiava una battaglia, che potevi fare… sparavi per ammazzarli”.
Inno fu presente alla festa popolare del 1° Maggio 1944 a Pietralunga, che in quei giorni era stata occupata dai partigiani e si era eretta a Territorio Libero, uno dei primi in Italia: “Certo che c’ero. La gente in piazza era fitta così, con le bandiere. Erano venuti anche dalla campagna. Noialtri partigiani s’aveva il nostro fazzoletto rosso. La notte prima ero a Montebello, la sede dei partigiani di Città di Castello, e avevamo visto i fuochi preparati vicino a Morena per indicare agli aerei alleati il punto dove sganciare le armi e i rifornimenti degli alleati. Poi ero andato a Morena coi muli, per riportare alla banda un po’ delle cose sganciate dagli aerei”.
Nei giorni seguenti i tedeschi scatenarono un imponente rastrellamento nella zona per annientare le formazioni alla macchia. Ci fu uno sbandamento generale. I partigiani pietralunghesi cercarono rifugio nelle zone più impervie di quell’area appenninica. Inno Ruggeri pensò di nascondersi ancora a San Zino. Il come riuscì a sopravvivere la dice lunga sui rischi e sugli stenti di quel periodo: “I tedeschi hanno piazzato proprio in quella casa di San Zino un loro comando. Di giorno stavo nascosto nel bosco. Ma la notte… Per dieci notti ho dovuto dormire con un altro compagno sotto terra, in una buca, una specie di tana scavata lungo un fosso. Ci si entrava dentro e si cercava di dormire sdraiandoci su del fogliccio. Poi però si è messo a spioviccicare e gocciolava acqua dentro. Per  fortuna i tedeschi poi se ne sono andati e abbiamo potuto riaggregarci agli altri”.
Inno Ruggeri si trovò coinvolto anche nell’ultima azione della “San Faustino”: la battaglia di Pietralunga, al fianco degli alleati, contro i tedeschi giunti a rioccuparla il 9 luglio: “Ero di guardia proprio all’angolo del giardino, dove c’è il monumento ai caduti. A un certo punto ho sentito, in basso verso la campagna, il rumore di muli. A mezzanotte i muli si sentono bene. Sapevo che anche i tedeschi avevano muli. È passato di lì uno dei nostri, Germano Cancellieri, e gli ho chiesto dove andava. E lui: ‘Vado a casa’. Faceva il giro sotto il paese per ritornare su lungo il fiume e andare a casa sua. Gli ho detto: ‘Io fossi in te non girerei tanto stanotte. Ho la sensazione che siamo circondati’. Infatti i tedeschi l’hanno preso e l’hanno fucilato proprio sotto il paese”.
Poi è scoppiata la battaglia tra i tedeschi, che stavano entrando a Pietralunga, e i soldati indiani di quattro camionette alleate che vi erano attestati. Ruggeri era tra i pochi partigiani in quel momento in paese e partecipò al combattimento: “Praticamente si era circondati. A un certo punto m’è scoppiata una bomba a mano, a un paio di metri. Fortuna che ero sdraiato: quattro o cinque schegge sul braccio, una sulla fronte, altre quattro sul ginocchio. La ferita peggiore era sulla fronte, le altre non mi davano troppi problemi. Mi sono lanciato verso un portoncino aperto. Dentro la casa c’era un rubinetto e così ho potuto ripulirmi dal sangue. La sparatoria sarà durata una mezzora, poi i tedeschi si sono ritirati”.
Tornarono in forze di lì a poco e occuparono Pietralunga. Le truppe indiane si ritirarono verso Carpini in attesa del momento opportuno per riprendere il paese conteso. Con loro si ritirarono anche i partigiani di Pietralunga, che vennero concentrati dietro le linee alleate e disarmati. Il loro contributo alla resistenza armata finiva lì.

 

Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 10 giugno 2014 epubblicata ne “L’altrapagina”, luglio 2014. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.