La notte dal 19 al 20 marzo, dopo essere sfuggiti all’accerchiamento fascista, i partigiani di Sansepolcro pernottarono a Gricignano. Per il pericolo scampato e per il coraggio mostrato nella circostanza da Nannei, superarono ogni controversia. Nel fuggire, i partigiani portarono con sé un compagno “ferito ad una scapola con ritenzione di proiettile; lo curarono, con l’ausilio di un medico, e si fermarono “in uno sperduto casolare”.
Nella mattinata del 20 marzo la banda raggiunse la zona di Molin Nuovo, nella valle del Cerfone, dove si trattenne fino al 23. Vi confluirono altri cinque partigiani, alcuni dei quali di quel territorio. A quel punto, quindi, si era costituita una formazione di 18 uomini. La componevano – i più avevano dei numeri come nome di battaglia – Eduino Francini (“40”), Ermete Nannei (“5”), Sergio Lazzerini (“37”), Arioldo Arioldi (“1”), Alvaro Cheli (“30”), Spartaco Forconi (“4”), Dorando Gallai, Giuseppe Gobbi (“3”), Mario Marcucci (“36”) e Lino Mercati, tutti già alla macchia sull’Alpe della Luna; inoltre, di Molin Nuovo o di altre zone dell’Aretino, Giustino Bianchini, Corrado Luttini, Giuseppe Magnani, Mario Mordaci, Donato Sbragi e Mario Geppetti (“2”); infine due partigiani stranieri, presumibilmente slavi. Le figure di maggior spicco erano Francini, Nannei e Lazzerini.
Con un’incursione all’azienda agraria Sassino si fecero consegnare dal fattore la somma di 75.000 lire come contributo all’armamento e al vettovagliamento della resistenza armata. Rilasciarono una ricevuta. Non fu l’unico prelevamento. Un agricoltore di Bivignano denunciò di essere stato espropriato di 200.000 lire; 1.000 poi le dettero a una sfollata aretina che viveva lì, dicendole: “Noi ai capitalisti tagliamo, ai bisognosi consegniamo”. La quantità di denaro prelevata venne annotata in un registro dal partigiano incaricato di tenere la contabilità.
La permanenza dei partigiani a Molin Nuovo fu funestata da un fatto di sangue. Catturarono un motociclista della Guardia Nazionale Repubblicana e lo uccisero presso Bivignano in circostanze rimaste oscure.
Si deve attribuire a questa banda, quando entrò nel territorio di Monte Santa Maria Tiberina il 23 marzo, l’esproprio di 130.000 lire ai danni dell’azienda agricola Mari di Petriolo.
Il 24 marzo i 18 partigiani si portarono ancora più a sud attraverso l’Appennino umbro-toscano. Gli eventi di quel giorno sono descritti minuziosamente nelle relazioni delle autorità fasciste. Verso le ore 19, mentre il grosso della banda restava di sentinella nei dintorni, sei dei suoi uomini penetravano nella villa padronale dei fratelli Caproni, a Trevine di Monte Santa Maria Tiberina, costringevano il fattore Giuseppe Palazzetti a consegnare biancheria, materassi, stoviglie e utensili da cucina e li distribuivano ai coloni nei dintorni. Quando rinvennero all’interno della villa quadri di Mussolini e del re, li ridussero in pezzi, calpestandoli: “Trovata poi la bandiera tricolore ne asportavano il bianco ed il verde facendone del rimanente una bandiera rossa… A saccheggio ultimato portarono seco alcuni abiti civili, un certo quantitativo di caffè, numerosi pacchetti di sigarette e un cavallo che trovarono in una stalla colonica sempre dello stesso proprietario della casa”. Prima di allontanarsi, lasciarono a Palazzetti un foglio per i Caproni: era una minaccia di morte per i proprietari, qualora non avessero concesso al Palazzetti un incremento salariale del 40%. La dichiarazione era intestata “X distaccamento 5a Garibaldi nucleo toscano” e firmata con dei numeri, che non lasciano dubbi sull’identità della banda, i cui esponenti avevano proprio un numero come nome di battaglia: “1”, “5”, “37” e “40”, rispettivamente Arioldo Arioldi, Ermete Nannei, Sergio Lazzerini ed Eduino Francini. I partigiani poi se ne andarono cantando “Bandiera rossa”.
La autorità fasciste avevano davvero pochi elementi per identificarli: forestieri, età approssimativa 20-25 anni, accento toscano, abiti civili, armati di fucili, mitra, pistole e bombe a mano in quantità. Presumevano fossero parte di “nuclei abbastanza numerosi” dislocati nell’area montuosa tra Mucignano di Città di Castello e Cortona.
Intorno alle ore 22 di quel giorno la stessa banda – che la gente del luogo affermò essere composta di 18 elementi – asportò 34 quintali di grano da due coloni della fattoria Caproni a Trevine e Ronti. Lo pagarono “a tariffe vigenti”, 250 lire il quintale, e affermarono di volerlo destinare “all’approvvigionamento di famiglie povere di montagna”. I fascisti avrebbero poi ammesso che quel genere di espropri suscitavano vasta simpatia: “La popolazione non ha commentato male l’atto dei ribelli, poiché esso si è svolto a carico di un ricco signore appartenente a quella cricca che ha tradito la Patria et l’onore della massa operaia”. Ai fatti di Trevine dettero risalto anche i Notiziari nazionali della Guardia Nazionale Repubblicana riferiti al giorno 24 marzo 1944: “[…] elementi ribelli irruppero nella fattoria dei fratelli Caproni, asportando masserizie che vennero distribuite ai coloni di quella zona”; “[…] circa 18 ribelli armati asportarono dalle abitazioni di due coloni 34 quintali di grano, pagandolo lire 250 al quintale”. Questo secondo comunicato aggiunge: “Nella stessa giornata, altri 30 banditi si aggirarono nella zona di Morra di Città di Castello e Ronti di Monte Santa Maria Tiberina, senza molestare la popolazione”; in realtà si trattava della stessa banda partigiana proveniente da Sansepolcro e Molin Nuovo.
Testo privo di note tratto da Alvaro Tacchini, La battaglia di Villa Santinelli e la fucilazione dei partigiani, Quaderno n. 12 dell’Istituto di Storia Politica e Sociale “Venanzio Gabriotti”, Città di Castello 2017.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.