Il prof. Nemo Sarteanesi (1921-2009) è stato un testimone importante delle vicende culturali di Città di Castello. Insegnante e pittore, intimo amico di Alberto Burri, ne è stato fidato collaboratore in quella straordinaria operazione culturale che permette ora alla città di poter vantare la Fondazione Albizzini.
Sarteanesi è tra i pochi tifernati che, prima della guerra, ebbero la possibilità di studiare in una grande città. A lui, come al fratello Alvaro, figli di un vigile municipale, dette una tale opportunità la borsa di studio del benemerito Lascito Segapeli-Cassarotti. Entrambi i Sarteanesi frequentarono a Firenze il liceo artistico.
Che impatto ebbero gli studi a Firenze in un giovane, come lei, proveniente dalla provincia?
“A Firenze ebbi la fortuna di frequentare un ambiente ricco di stimoli culturali, particolarmente avanzato nel campo delle arti figurative e in contatto con Parigi. Mi insegnava figura disegnata il pittore Ottone Rosai. Rimanendo a contatto con i nostri insegnanti si potevano frequentare altri personaggi di spicco di Firenze. Un luogo di ritrovo era le ‘Giubbe Rosse’, nell’attuale piazza della Repubblica. Vi si potevano incontrare gli artisti di Firenze e quelli di passaggio. Anche letterati famosi, come Ardengo Soffici, che era stato a Parigi ed era conosciuto come pittore di un certo rilievo a livello internazionale. Tutti facevano una scappata alle ‘Giubbe Rosse’”.
Che effetto faceva a un giovane studente trovarsi a contatto con personaggi così famosi?
“Non è che noi giovani ci si mettesse a parlare con loro; più che altro si stava ad ascoltare. Ma ci dava soddisfazione sentirli parlare, sentire i loro giudizi artistici. Al ‘Giubbe Rosse’ conobbi anche De Chirico: mi fece fare un disegnino su una cartolina illustrata. Comunque in quel locale io ci andavo perché avevo un rapporto particolare con Ottone Rosai e con Felice Carena, accademico di Italia e di Spagna e presidente dell’Accademia e del Liceo Artistico di Firenze. Passavo nei pressi del locale e se mi chiamavano andavo là e mi trattenevo con loro; altrimenti passavo oltre”.
Mi parli del suo insegnante, Ottone Rosai.
“Rosai dipingeva scene di paese… Lui stava nella parte più becera di Firenze, di là dell’Arno, dove c’era via Toscanella, che ha dipinto più di una volta. C’era la possibilità di avere un contatto molto personale con il paesaggio che ti stava intorno. Un po’ come si aveva dalle nostre parti in provincia. Non era una grande pittura di sapore innovativo. Era tradizionale come immagini, ma le raffigurava in maniera molto sintetica, molto moderna. Politicamente, Rosai era un fascista della prima ora. Un teppista vero e proprio. Quando gli chiesi cosa faceva da giovane, mi rispose: ‘Si andava a giocare alle Cascine’ ‘Ma a che cosa giocavate?’ ‘Si faceva a fucilate!’ Come insegnante, non parlava mai di fascismo, gli piaceva parlare d’arte. Avrà avuto una cinquantina di anni. Era anche un letterato. L’ho conosciuto come pittore e intellettuale. Dopo la guerra, però, lo ‘bordarono’ bene bene. Quelli della parte opposta si ricordarono di lui”.
Rosai lo influenzò da un punto di vista artistico?
“Già allora mi dilettavo nel fare disegni di paesaggi. Andavo in giro in bicicletta con la mia cartellina e quando vedevo uno scorcio che mi piaceva mi fermavo e lo disegnavo. Non possedevo i colori, ancora; costavano troppo. Usavo solo colori a tempera, ad acqua. Ottone Rosai mi disse: ‘Dovresti fare acqueforti’. Allora andava la riproduzione di quello che si vedeva. Però con l’acquaforte bisognava riprodurlo alla rovescio e a me rompeva gli stivali, guastava tutto. E poi l’acquaforte è per chi sta tutto il giorno in casa a sedere; non si adattava ai miei processi artistici”.
Firenze le dette altri stimoli?
“Fu a Firenze che cominciai a leggere la rivista culturale ‘Omnibus’. Una bella rivista, con splendide foto in bianco e nero. Allora attraeva la letteratura americana; e si sapeva che non piaceva al regime. Però nessuno diceva niente. Un altro ritrovo intellettuale erano i concerti. Ho potuto assistere a grandi concerti. Ho ascoltato Stravinskj, di persona, e tanti altri grandi musicisti in tournee per l’Europa. Inoltre si potevano frequentare circoli privati, ma aperti a tutti, come ‘Il Lyceum’, in via Ricasoli, in cui venivano invitati a tenere conversazioni personaggi come Ardengo Soffici e Alberto Savinio, fratello di De Chirico, che non mancava di integrare gli interventi con brani di musica riprodotta. Anche a scuola si discuteva sui movimenti artistici che ognuno di noi aveva avuto modo di conoscere più da vicino. Si parlava molto del cinema, specialmente francese, e si ricercavano anche vecchi films, in programmazione ancora nelle sale periferiche, di Jean Renoir, René Clair, Marcel Carné, Duvuvier, ecc. ”.
Il suo esordio artistico è avvenuto a Firenze?
“Sì. Nel 1938 il maestro Carena organizzò un’esposizione all’Accademia, una mostra di disegni: c’erano De Chirico, Carrà, tanti nomi importanti del ‘900. Gli stavo a cuore e Carena mi obbligò a partecipare. Aveva trovato interessanti i miei disegni. L’inaugurò la principessa del Belgio. Tra tutta quella gente importante mi sentii a disagio e mi sfilai tra il pubblico. E’ stata la mia prima mostra collettiva importante”.
Si era sul finire degli anni ’30. Come percepiva il regime fascista?
“Il fascismo lo vedevamo, come dire, come attraverso un vetro smerigliato. È vero che quello era il periodo di maggiore consenso verso il regime, anche di maggiore retorica fascista, ma noi studenti d’arte lo vivevamo con maggiore distacco. Ci proteggeva un po’ anche la natura stessa dei nostri studi: un nudo era un nudo, e così una statua greca, un paesaggio”.
Ma il regime poneva grande attenzione nell’“inquadramento totalitario” della gioventù.
“Mancava una rigida vigilanza politica. Il fascismo non riusciva a essere così totalizzante da controllare ogni aspetto dell’attività. Almeno non ci riusciva in campo artistico. Nel nostro liceo artistico non c’era indottrinamento. Ci indottrinavano quando il sabato si andava alla Premilitare; e bisognava andarci, se no intervenivano. Io avevo trovato il sistema per evitarla, ma mi scovarono. Scrissero subito al mio babbo, a Città di Castello. Vivevo con fastidio quell’obbligo del sabato. Quando poi vi partecipai, mi resi conto di come ci facessero marciare per le strade di Firenze: il tenente, davanti, ad ogni bivio impartiva l’ordine di svolta a sinistra o a destra e gli ultimi tre se ne andavano; alla fine se ne andava anche lui. Più noiose, perché bisognava stare lì seduti, erano le lezioni di tecnica militare e di funzionamento delle armi”.
A voi giovani il regime vi faceva gareggiare nei Littoriali della cultura, dell’arte, dello sport e del lavoro.
“In effetti i Littoriali erano la sola manifestazione alla quale partecipavamo con convinzione, perché si trattava di un’iniziativa spontanea, non imposta dall’altro. Ci facevano fare i Prelittoriali nelle grandi città, ed erano obbligatori; i primi classificati partecipavano poi ai Littoriali, le finali nazionali, dove veniva eletto il Littore, colui che si era distinto in quel ramo specifico dell’arte o della cultura. In quelle competizioni godevamo di una certa autonomia: le mostre per i Prelittoriali d’arte le allestivamo da noi. Sicuramente fu proprio a quei tempi che ebbe modo di affermarsi il Teatro Sperimentale di Firenze, dal quale uscirono molti giovani attori”.
Che ambiente culturale trovava a Città di Castello, quando tornava da Firenze?
“Tornavo di rado, appena a Natale. Con i pochi interessati alla cultura ci si incontrava alla Libreria di Giuseppe Paci. Vi si trovavano libri interessanti, aggiornati, anche di letteratura americana, e settimanali culturalmente avanzati, come ‘Il meridiano di Roma’. Paci un po’ di fronda al regime la faceva, ma in modo circospetto. Frequentava la libreria anche mons. Enrico Giovagnoli. Quando spiegava il concetto di caos, diceva agli studenti: ‘Per capire cos’è il caos, andate alla Libreria Paci’”.
Enrico Giovagnoli, sacerdote e insegnante, era allora la figura di maggior spicco della cultura tifernate e il direttore della tipografia “Leonardo da Vinci”. Come lo ricorda?
“Avevo occasione di parlarci molto: era un uomo che ti trattava da pari a pari nonostante che tu fossi giovane, senza farti pesare addosso la grande cultura che aveva e il prestigio culturale che lo circondava. Mi lasciava esprimere le mie opinioni e ne teneva conto. Quando parlava affascinava per la sua vena oratoria. Era una persona attenta, di grande rettitudine”.
Giovagnoli manifestò sempre il suo sostegno al regime fascista.
“Spesso, come di consueto a quei tempi, finiva i suoi articoli con l’incensatura al “grande condottiero”. Un’adesione da intellettuale al regime e a Mussolini, visto come grande Duce d’Italia e dei suoi destini. Valorizzava gli aspetti nazionalisti del fascismo legati al risorgimento. Io lo ricordo come intellettuale, non come uomo di partito. In un ambiente culturale arretrato, come quello di Città di Castello, con una didattica altrettanto arretrata, emergevano personaggi come Giovagnoli, che insegnavano nelle scuole private. Giovagnoli ha sicuramente avuto una forte influenza sulla nostra generazione. Aveva una solida preparazione artistica e la sapeva trasmettere. Teneva banco a scuola, incantava quando parlava di letteratura e di arte”.
Incoraggiava voi giovani artisti?
“Si. Fu lui ad affidarmi il restauro del portale di San Domenico. L’incarico del ripristino del portale lo aveva avuto Marco Tullio Bendini. Aveva fatto i disegni, ma poi, alla sua prematura scomparsa, Giovagnoli si rivolse a me. Lo convinsi a farci dipingere il San Domenico ad Aldo Riguccini. Ma di notte andarono a imbrattarlo, con la vernice ad olio. L’episodio fu un esempio della frattura fra l’ambiente artisticamente arretrato e le nuove avanguardie. Noi si era visti un po’ tutti come degli esseri fuori dal tempo. Giovagnoli invece era una personalità, ci rispettava, ci incoraggiava; parlò di noi come giovani promesse”.
Anche Aldo Riguccini, in arte De Rigù, studiò a Firenze.
“Si. Anche lui fu allievo di Carena. Poi frequentò l’Accademia di Belle Arti, dove insegnava decorazione Galileo Chini. Ma Riguccini noi lo si vedeva poco. Aveva iniziato i suoi studi a Perugia. A Firenze poté dedicarsi al disegno di moda. Cominciò con le calzature, con un importante calzolaio perugino. Lo pagava bene, il doppio della sua borsa di studio. Si dedicava tantissimo all’attività di stilista, impegnandosi quindi di meno in quella artistica, per la quale era dotatissimo. Fu lui a dipingere la cappella Monti al cimitero, intorno al 1935-1936. L’ambiente di Castello rifiutava il suo stile. Allora veniva accettata solo la tradizionale pittura devozionale. Aldo, invece, era influenzato dall’espressionismo tedesco e da El Greco”.
In un’epoca nella quale scarseggiavano buone riproduzioni a colori dei dipinti, come scopriste El Greco?
“Conoscemmo questo grande pittore greco educatosi nell’ambito della cultura veneziana anche con il contributo di un giovane amico emigrato negli Stati Uniti, Erminio Scapicchi. Tornato in città per visitare la nonna, ci disse di essere diventato pittore e di insegnare all’Accademia di Belle Arti di Pasadena. Aveva portato con sé numerose riproduzioni in quadricromia (rare a quel tempo) di El Greco. Per noi fu una autentica scoperta”.
Un altro personaggio di rilievo dell’ambiente artistico tifernate era Marco Tullio Bendini, anche lui insegnante.
“Bendini era genialoide; una persona viva, estroversa, con una conversazione divertente. Un uomo di cultura vera, con grande facilità operativa anche nel dipingere. Benché fortemente dotato, si era rinchiuso nella provincia ed era rimasto un po’ imprigionato nel suo clima asfittico. Aveva studiato a Roma e veniva dalla scuola di Aristide Sartorio. Il suo era uno stile eclettico, venuto fuori con i Savoia, che non avevano una tradizione culturale propria e se la costruirono per creare i fasti della loro casa. Come disegnatore per le arti applicate, Bendini era legato agli aspetti decorativi del liberty. In certi lavori ripeteva senza invenzioni schemi consueti, consolidati, di moda. Ma il suo estro artistico emergeva quando dipingeva. Ci si incontrava spesso a Belvedere: io disegnavo, lui dipingeva. Faceva paesaggi. Era novecentista come pittore, con spunti impressionistici; anche il gusto macchiaiolo è evidente in alcune tele. Il suo stile più puro è proprio quello in cui il paesaggio perde elementi descrittivi per esprimere l’emozione, l’intuizione estetica. Sono i pezzi più poetici. Raccogliendo l’eredità ‘plein air’ degli impressionisti, si lasciava andare all’ispirazione più semplice e diretta e demitizzava la cultura accademica ufficiale fatta di ritratti e composizioni monumentali”.
Anche Bendini aderì con convinzione al fascismo. Ne parlava con lei?
“Con Bendini si parlava solo di pittura, non di politica. Era un personaggio attaccato a Città di Castello, partecipava alla vita cittadina. Disponibilissimo verso gli artigiani, gli enti e le associazioni. Era lui a disegnare a mano i manifesti per il cartellone del Cinema Eden, che allora non erano stampati; anche quelli per la squadra di calcio Tiferno. Aveva una facilità incredibile nel disegno”.
Conobbe altri artisti tifernati?
“Il liceo apparteneva al reparto dell’accademia delle belle arti. Ci trovai un insegnante che parlava castellano, si chiamava CelestinoCelestini. Ha lasciato dei suoi autoritratti alla ‘Segapeli-Cassarotti’. Un personaggio singolarissimo, uno di quelli che erano andati via da Castello sdegnosi. Tornò una sola volta a Castello, perché era amico di Marco Tullio Bendini; però, siccome stava fuori di porta, al Gorgone, ci stette solo un paio di settimane, non veniva mai in città”.
A quell’epoca era a Città di Castello anche Alessandro Bruschetti.
“Bruschetti era di Perugia. Venne a Città di Castello per l’appoggio del soprintendente Bertini Colosso, che gli affidò il lavoro di Santa Maria Maggiore: un lavoro accademico, di facile contestazione, copiato da Masolino da Panicale. Poi mi scrisse: ‘Cerchiamo di non farci del male tra noi’. Mi dispiacque. Non ebbe influenza sull’ambiente di Castello. Lui era del gruppo di Dottori, di tardi futuristi; era ormai un futurismo stanco. Insegnò un po’ a Castello, poi andò a Monza. Era un abilissimo restauratore”.
Data a quegli anni la sua amicizia con Alberto Burri. Si interessava già allora di arte?
“Conoscevo Burri perché era amico di mio fratello. Entrambi avevano qualche anno più di me. Alberto manifestò interesse per la pittura già negli anni 1936-1937. Si divertiva a dipingere paesaggetti”.
Che carattere aveva?
“Burri usciva fuori dal contesto: era fantasioso, amava l’avventura, aveva una personalità trascinante, carismatica. Lui si è letto tutti i libri di avventura, nella sua giovinezza. Ci è cresciuto sopra, come tutti noi; i libri di Salgari, di Verne ecc… Ce li passavamo di mano in mano”
Burri partì volontario per la guerra d’Africa. Era il più politicizzato di voi giovani?
“Più che politicizzato, era il più fantasioso, un amante dell’avventura. Falsificò l’età pur di poter partire volontario per la guerra in Etiopia; voleva andare in Africa. Aderì al fascismo su queste basi. Nella seconda guerra mondiale dimostrò di essere idealista: quando lo presero prigioniero non volle collaborare: ‘Siccome ho giurato fedeltà al re’ – diceva – ‘collaborerò con voi solo quando il re chiederà l’armistizio’. Pagò anche con grandi sacrifici quella scelta. Gli ufficiali che collaboravano li trattavano bene. Fu detenuto in Texas tra i non collaborazionisti dal 1940-’41 fino al 1947. Ebbe la fortuna di trovare un ambiente stimolante con Giuseppe Berto e Tumiati e scoprì se stesso. Produsse opere pseudo-figurative già contenenti gli elementi dell’arte astratta”.
Ebbe modo di partecipare all’attività dell’Opera Nazionale Balilla a Città di Castello?
“L’ambiente dell’Opera Balilla di Castello l’ho frequentato poco. Quando potevo, evitavo di andare alla sede. Tra i giovani cadetti dell’Opera, uno dei più infatuati era Aldo Bologni: ci comandava e ci strapazzava. Poi andò alla macchia”.
Chi erano, agli occhi di voi giovani, gli antifascisti?
“Venanzio Gabriotti era un antifascista dichiarato, non però di quelli settari. Si incombriccolava con tutti. Si comportava con una certa distinzione. Avevano fama di antifascisti alcuni artigiani, nostalgici, l’anarchico Benni, l’altro falegname Gustinicchi, il vecchio Marinelli, i ferrovieri, sempre col fiocco nero al posto della cravatta, li ricordo bene. Che effetto facevano su di noi? Si sentiva che tenevano dentro un certo astio. Poi c’erano quelli che per lavorare s’erano adattati, come gli Antoniucci, i “Camiciola”. C’era questa tacita convenienza. In casa mia si parlava poco di politica; mio padre era vigile urbano, doveva partecipare alle manifestazioni, ma gli scocciava lavorare sempre il sabato; non era fascista convinto”.
La guerra: che impatto ebbe su di lei?
“Si parlava tra noi giovani dell’alleanza con la Germania, che ci lasciava perplessi anche per i trascorsi della prima guerra mondiale. Io personalmente avevo paura della Germania, mi fece impressione la facilità con la quale piegò la Francia all’inizio della guerra. Temevo che sarebbe arrivata a dominare l’intera Europa. Difatti, quando tutti si sentivano felici dopo l’armistizio, io andavo contro corrente e dicevo: ‘Adesso che li abbiamo in casa, chi ci difenderà dai tedeschi?’”
Intervista effettuata da Alvaro Tacchini e parzialmente pubblicata ne “L’altrapagina”, maggio 2005. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
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