Poco dopo le ore 11 della mattina del 26 aprile 1917 una scossa di terremoto mise in allarme la parte occidentale dell’Alta Valle del Tevere. Non provocò danni, ma fu abbastanza forte da indurre la popolazione a portarsi precauzionalmente fuori dalle abitazioni. Alle 11.35 il fenomeno si replicò, in forma violentissima. Una delle testimonianze più vivide di ciò che provò la gente l’ha lasciata il priore di Citerna don Eugenio Fattorini: “Pochi minuti che rapidamente volarono, quando ecco si ripeté un boato immenso, un urlo promiscuo di tutti gli elementi sconvolti, un sussulto un ondulamento un sovvertimento che tutti inebetì, tutti sconvolse. I tetti, le pareti, le case cadono, rovinano, si sfasciano. La polvere, la caligine, la nebbia si addensano, il sole si oscura, il cielo diventa nero, l’aria non è respirabile; la morte si sente vicina, potente, dominatrice di persone e di cose…”. Un’altra testimonianza anonima da Citerna trasmise il terrore suscitato dall’“urlo immenso, immane, profondo”, scatenatosi dalle viscere della terra, dal boato infernale, dagli squarci che si aprirono sul “suolo minaccioso d’inghiottire” le persone in fuga; un urlo – raccontò il testimone – che “abbiamo ancora nell’animo e non si cancellerà facilmente”. Altrettanto impressionanti le testimonianze da Monterchi: “[…] il boato orribile, il cielo fattosi oscuro, l’aria diventata irrespirabile, le nubi di gas giallastro sprigionatesi dalla terra che si apriva e si richiudeva lungo la linea del Cerfone, il polverone accecante, le urla strazianti, la torre e il campanile che ondulavano come canne mosse dal vento, tetti e muri che crollavano spaventosamente”.
Un persona che si trovava sul colle della Montesca, a occidente di Città di Castello, raccontò che durante il terremoto la città “sembrava che ondeggiasse come le acque di un mare”. Nella zona maggiormente colpita dal sisma, si aprirono fenditure sul suolo, furono sradicati alcuni alberie si ebbero “intorbidamenti dei fiumi e ruscelli”. La tifernate Suntina Petricci, allora ventenne, a quell’ora stava attingendo acqua da una fontanella nell’odierna piazza Andrea Costa: “Pe’ lu spostamento d’èria, m’artrovèi le bròche da l’aqua de fronte a la farmacia Bini”, cioè a diversi metri di distanza. La testimonianza di Suntina è importante, perché rievoca anche il clima di tensione sociale che si stava acuendo nella primavera del 1917 a causa dei disagi prodotti dalla Grande Guerra: “Quando venne ‘l teremóto del ’17 c’era lo sciopero de le dòne che chiedevono ‘l ritorno dei loro ómini a chèsa, pe la grande miseria. Vènnero i carabinieri a cavàlo per tené fèrma la gente. Eron diventète m po’ catìve quele dòne; eron armaste sóle a chèsa e n’ c’era nesuno che lavorèa. […] ’N seguito al teremóto finì anche lo sciopero. Ma quele dòne aéon ragione. Era quatr’ani che durèa la guèra e i fioli morìon de fème: acidenti a la guèra”.
La scossa di terremoto più devastante fu allora calcolata del IX-X grado della scala Mercalli, “con durata 10 secondi, ovest/nord-ovest, ondulatoria e sussultoria con boati”. Ma altrove, in questo volume, ci si sofferma sugli aspetti scientifici di questo drammatico evento.
Per ricostruire l’atmosfera e le emozioni del momento tornano utili le corrispondenze dell’inviato speciale da Arezzo de «La Nazione». Scrisse il 27 aprile: “Torno ora da una rapidissima corsa attraverso i luoghi che il terremoto ha devastato nell’alta valle Tiberina. Visioni di raccapriccio, e scene di grande pietà. A Monterchi, il paese che ha sofferto danni maggiori, altri cadaveri si trovano ancora sotto le macerie, non si sa dove, né quanti. Le famiglie sono disperse qua e là per la campagna e molti ignorano se hanno vittime o no. Qualcuno pianto come scomparso è tornato e torna all’improvviso. Le popolazioni di Monterchi, di Anghiari, di San Sepolcro, di Santa Maria Tiberina, che hanno passato la notte all’aperto, intorno a grandi falò e sotto tende apprestate dalle autorità militari, vivono ancora in uno stato di eccitazione vivissima, e temendo il ripetersi delle scosse, si ostinano anche nei paesi [dove i] danni materiali sono stati relativamente lievi, a non tornare nelle loro case”. Ecco un altro brano del reportage del 28 aprile: “[…] da lontano, Monterchi appare intatto: soltanto il campanile appare trasfigurato da una decapitazione grottesca: soltanto poche case fanno vedere, a chi è fuori, qualche ferita. Ma […] Monterchi è, dentro, tutta una rovina: tutto un cumulo di pietre e di mattoni. Talune case sembrano una maschera intatta. Ma basta aprir l’uscio per vedere il cielo di sopra ad un cumulo di calcinacci, di mobili, di travi, di ferri contorti. Monterchi non esiste più… La tragedia di Messina s’è ripetuta qui, proporzionalmente, nella stessa misura! È come una piccola sorella della grande martire”.
Le testimonianze convergono nello spiegare il ridotto numero di morti per il sisma –a Monterchi si contarono 23 morti e 35 feriti – con il fatto che gran parte della popolazione rurale era già al lavoro sui campi e che nei centri abitati la gente abbandonò le case precauzionalmente dopo la scossa delle ore 11. Tuttavia i danni furono ingentissimi in tutto il territorio alla destra del Tevere. Oltre ai comuni di Citerna e Monterchi, il sisma colpì duramente quelli di Monte Santa Maria Tiberina (soprattutto Lippiano) e di Città di Castello (tra Lugnano, dove solo un paio di case restavano abitabili, Petrelle e Badia Petroia). Cospicui, ma più contenuti i danni subiti da Anghiari e Sansepolcro. Nelle zone più sinistrate, la popolazione delle campagne si trovò in una situazione di assoluta precarietà, con case coloniche in genere crollate o lesionate e stalle pericolanti che non potevano dare riparo al bestiame.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.