Libro con testimonianze sulla banda di “Tifone”.
Giovanni Zuddas ("Tifone").

La banda di “Tifone”

Sull’Alpe di Catenaia costituì precocemente una formazione partigiana il brigadiere Giovanni Zuddas, già comandante della stazione dei carabinieri di Chiavaretto (Subbiano). Assunse come nome di battaglia “Tifone”. Sottrattosi alla caccia che i nazi-fascisti gli dettero tra settembre e ottobre, “Tifone” trovò sull’Alpe di Catenaia il territorio più sicuro dove rifugiarsi nel periodo invernale. Assai popolare per il suo carisma, guidò con energia e rigore una banda nella quale confluirono evasi dai campi di prigionia di diverse nazionalità, tra cui sei francesi.

I capresani di Valboncione e Fragaiolo, guidati da Albano Meazzini, divennero un punto di riferimento importante di “Tifone”. Nella faggeta dove si rifugiò il gruppo, furono loro a costruire per tutti delle capaci e ottime capanne, dello stesso tipo di quelle usate dai carbonai: durature ed adatte a sopportare le intemperie del tempo”.

A fine autunno e inizio inverno gli uomini alla macchia sull’Alpe di Catenaia allacciarono proficui contatti con i partigiani romagnoli. Albano Meazzini, che ne parlò come del “primo atto significativo della banda”, a metà novembre si recò insieme allo slavo Valentino e ad altri compagni a San Paolo in Alpe, nel comune di Santa Sofia, e stabilì rapporti “con una forte organizzazione di circa 100 partigiani in attività nella zona e comandati da Antonio Carini detto Orsi”.

Ad aprile la banda di “Tifone”, che contava una sessantina di uomini, si spostò dall’Alpe di Catenaia verso l’Alpe di Poti, Monte Favalto e quindi la valle del Nestoro. Ad essa si era aggregato anche l’anghiarese Beppone Livi. Il 23 aprile partecipò con la banda di Morra, in quel paese, alla requisizione dell’olio della fattoria Nicasi e alla sua distribuzione alla popolazione. Poi stazionò qualche giorno nella zona. Intorno al 27 aprile gli uomini di “Tifone” entrarono a San Leo Bastia, “camminando in fila e con in testa una bandiera tricolore con al centro disegnata una stella rossa”. Raccontò Enzo Bucci: “Si fermarono alla Casella, presso la vecchia scuola e una parte si appostarono nell’aia di Pannacci Mariano, detto Falcino, altri si recarono nei pressi dell’ufficio postale e della bottega dei Carachini. I partigiani erano in maggioranza toscani e si disse che il loro comandante era un maggiore dell’esercito italiano. Dopo circa un’ora dal loro arrivo giunse da Cortona una motocicletta condotta da uno sconosciuto sui cinquant’anni e con seduta, nella parte posteriore, una donna”. Alla guida il fascista cortonese Ferdinando Andreani. I partigiani lasciarono andare la donna, ma trattennero l’Andreani. Il partigiano Domenico Galli così descrisse quanto avvenne successivamente: “Liberata la donna, ripresero la via del ritorno portando con loro l’Andreani. Stavano percorrendo, in fila indiana, uno stretto sentiero quando il Livi, sorprendendo tutti, si avvicinò al prigioniero scaricandogli addosso alcuni colpi di pistola, uccidendolo. Dopo due giorni, febbricitante, dovette abbandonare la formazione”.

Il 9 maggio “Tifone” e i suoi uomini si trovavano nella zona di Monte Falterona, dove era previsto un aviolancio di rifornimenti alleati. In loc. La Burraia vennero sorpresi e circondati da ingenti truppe nazi-fasciste. Rischiarono di soccombere, ma poi riuscirono in gran parte a mettersi in salvo. Caddero in mano nemica tre o quattro partigiani stranieri di nazionalità francese e quattro italiani, oltre ai cavalli e ai muli carichi di equipaggiamento e alla cassa della formazione con la somma di 250 mila lire, frutto di offerte di simpatizzanti e di requisizioni a danno di fascisti. I francesi furono fucilati; i prigionieri italiani vennero portati via. Tra di essi vi erano Tullio Nofri, di Sansepolcro, e l’anghiarese Vilno Giorni, detto “Leone”. Per salvare la vita, Nofri accettò di arruolarsi nell’esercito, ma poi fu assegnato al lavoro coatto in Veneto. Giorni rimase per due mesi in carcere a Firenze; poi lo inquadrarono nelle squadre di prigionieri-lavoratori impiegate nelle riparazioni alla linea ferroviaria bombardata. Riuscì a evadere e a tornare alla macchia. Quanto alla banda di “Tifone”, tentò di ricompattarsi sull’Alpe di Catenaia. Ma, ammise l’anghiarese Pedro Resti, “la formazione era sciolta, eravamo rimasti molti pochi”. Decisero così di frazionarsi in vari gruppi.

 

Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.