Nel mese di luglio le formazioni partigiane dell’Appennino altotiberino toscano furono sottoposte a una pesante pressione da parte dei tedeschi. Le azioni militari che sporadicamente misero in atto tra l’Alpe di Poti e l’Alpe di Catenaia provocarono l’immediata e dura reazione nemica: lo schieramento difensivo germanico non poteva tollerare insidie nelle proprie retrovie.
Alle bande della Brigata “Pio Borri” che gravitavano sul Casentino giunse l’ordine di tenersi pronte per calare su Arezzo e liberarla, prendendo i tedeschi alle spalle mentre gli Alleati si avvicinavano al capoluogo. Ma il rallentamento dell’avanzata anglo-americana nel Valdarno allungò i tempi dell’operazione e creò serie difficoltà ai partigiani. Ancor più lento si rivelò il progresso sul terreno della 4a e 10a divisione indiana nell’Alta Valle del Tevere, così che le formazioni che operavano tra Anghiari e Caprese Michelangelo – parimenti alla “Francini” sull’Alpe della Luna – si trovarono a lungo in condizioni di grave vulnerabilità.
Dal 6 al 13 luglio per tre volte i partigiani dovettero difendersi da attacchi nemici. Al passo della Libbia e a Montemercole, contro uomini della banda Arioldi, i tedeschi ebbero anche il supporto di autoblinde. A Ponte alla Piera una pattuglia di una decina di partigiani del Distaccamento Lubiana fu sorpresa dai fascisti. In quest’ultimo episodio morì Karel Zimperman (o Cimperman), uno degli slavi che sin dal 14 settembre 1943 si erano dati alla macchia per combattere il nazi-fascismo.
Nei giorni convulsi che precedettero la liberazione di Arezzo, avvenuta il 16 luglio, alcuni partigiani altotiberini si trovarono coinvolti nei tragici fatti di Molin dei Falchi e di San Polo. Uomini delle bande di “Tifone” e di Arioldi si erano già avvicinati al capoluogo, in previsione della sua occupazione. Era stato smantellato il campo di prigionia della “Pio Borri” sull’Alpe di Catenaia – i partigiani, “soli e affamati”, avevano ormai difficoltà a provvedere anche al sostentamento dei prigionieri – e i militari tedeschi internati furono temporaneamente rinchiusi in un annesso agricolo a Molin dei Falchi. Tra lì e Pietramala si ritrovò gran parte del comando della “Pio Borri”, dove sembra che Eugenio Calò e Angelo Ricapito fossero latori del messaggio degli Alleati che suggeriva, in considerazione del rallentamento dell’avanzata su Arezzo, di restare inattivi, nascondere le armi e attendere il momento propizio. La stessa banda di “Tifone”, appostata nei pressi, temendo di essere circondata, si era frammentata. Poi, la mattina del 14 luglio, con un improvviso attacco, i tedeschi liberarono i commilitoni prigionieri, catturano numerosi partigiani e le persone sfollate nella zona, uccisero alcuni civili, tra cui donne, anziani e bambini, e condussero il resto a San Polo. Li massacrarono dopo ore di spietate violenze. L’operazione repressiva nella zona si concluse con la morte di 78 persone, in uno scenario di raccapricciante brutalità. Autori della strage furono militari del 274º reggimento corazzato della 94ª divisione di fanteria tedesca. Tra le vittime vi furono i dirigenti partigiani Calò, Ricapito e Vasco Lisi; riuscì invece fortunosamente a sfuggire alla cattura a Molin dei Falchi il comandante della “Pio Borri” Siro Rosseti.
Si salvarono i partigiani allontanatisi da Molin dei Falchi: oltre agli uomini di “Tifone”, quelli di Arioldi, di Dante Gallorini – subentrato a Donnini al comando del Centro di Collegamento “Poti” – e i capresani. La banda di Arioldi e il Centro “Poti” parteciparono poi alla liberazione di Arezzo. Albano Meazzini, tra i primi a soccorrere i feriti dalla furia germanica, avrebbe poi scritto che i partigiani di Caprese Michelangelo rimasero nel loro territorio e da quel momento si adoperarono soprattutto a “sfuggire alle rappresaglie”.
Intanto sul versante capresano il Distaccamento Lubiana continuava a contendere ai tedeschi il controllo della zona. Nella settimana dal 15 al 22 luglio li impegnò in combattimento tre volte, causando loro perdite e costringendoli a impiegare reparti per rastrellare le zone dove avevano subito attacchi. Nell’agguato del 15 luglio il “Lubiana” mise in campo 34 uomini, di cui 6 italiani. La formazione era diventata ancor più multinazionale: da giugno comprendeva altri tre russi, un polacco e un cecoslovacco.
Due giorni dopo una pattuglia di una dozzina di partigiani, dieci dei quali slavi, attaccarono tre tedeschi che stavano razziando la fattoria del Bencino: uno morì, un altro subì gravissime ferite, un terzo fuggì e riuscì a tornare al suo reparto. L’immediata reazione germanica portò al rastrellamento di quaranta ostaggi, uomini e donne, rinchiusi in una stalla di Manzi. I sacerdoti del luogo tentarono inutilmente di provare l’innocenza degli ostaggi. Quando un sottufficiale tedesco lesse loro l’ordinanza della fucilazione, parve che non ci potesse essere più alcuna speranza di salvarli. Poi invece intercedette a loro favore una signora di origine tedesca che viveva nella zona, Elisabetta Hannes Noli. Dopo una notte di ansia, gli ostaggi seppero che l’esecuzione era stata sospesa. Ma la situazione rimase tesa. Donne e anziani vennero rilasciati solo in seguito; gli uomini furono condotti a ridosso della linea del fronte per lavorare alle postazioni difensive tedesche.
Nello scontro a fuoco del 22 luglio, infine, 25 slavi e 5 italiani del “Lubiana” combatterono per due ore per sottrarsi a un rastrellamento. Riuscirono a evitare l’accerchiamento e, secondo loro fonti, inflissero “notevoli perdite” al nemico. Ma pagarono anch’essi un prezzo pesante: alla Faggeta morì Franc Mihelic, un altro partigiano della prima ora, e fu catturato il cecoslovacco Andrei, di cui si ignorò la sorte.
La durissima battaglia tra Alleati e tedeschi sull’Alpe di Catenaia trovò i partigiani slavi e capresani annidati nei loro rifugi su quelle alture. Albano Meazzini ha lasciato una testimonianza di come quelli di Caprese seppero attraversare la linea del fronte e mettersi al sicuro. Quando lo fecero, nei primi giorni di agosto, i tedeschi erano attestati nella zona di Valboncione e Fragaiolo “con trincee schierate tra le Celle, i Prati di Rassina e il Prato della Regina”. I partigiani capresani, a dire di Meazzini, non si fidavano troppo nemmeno dei soldati indiani, che lui chiamava “Mori”: con loro “era difficile intendersi”. Approfittarono dunque della scarsa visibilità di un giorno di pioggia battente – e della loro perfetta conoscenza del territorio – per raggiungere le postazioni anglo-indiane senza essere scorti dai tedeschi. Poi si misero a loro disposizione come esploratori e informatori: aggregati a una pattuglia equipaggiata di ricetrasmittente, comunicarono “con esattezza gli appostamenti tedeschi con tutte le batterie di artiglieria poste nella zona di Caprese”. Il risultato – affermò Meazzini – fu importante: “Con queste informazioni le artiglierie alleate, poste alla Chiassa Superiore, poterono colpire con grande precisione le linee nemiche arrecando molti danni e accelerando la ritirata da Caprese dei tedeschi […]”.
Nello stesso periodo, la difficile situazione in cui si trovarono gli slavi del Distaccamento Lubiana è testimoniata dalle perdite subite in appena una settimana. Il 7 agosto non videro tornare il polacco Albin, forse caduto, o forse catturato alla Faggeta. Tre giorni dopo fu ucciso dai tedeschi, mentre era in perlustrazione presso Caprese, Alojs Pirc, membro della banda dal settembre 1943. Il 14 agosto i tedeschi bersagliarono con granate una pattuglia del “Lubiana” in servizio di vettovagliamento a Trecciano: morì Ludvik Blumenfeld. L’indomani la formazione si vedeva amputata di altri quattro uomini. Si legge in una relazione: “Il giorno 15 agosto quattro partigiani di nazionalità russa, nel tentativo di passare il fronte per raggiungere le truppe alleate, perdevano il collegamento con il Comando del Distaccamento, rendendosi irreperibili. Si ignora quale sia stata la loro sorte”. Dal 1° giugno a metà agosto, il “Lubiana” ebbe uccisi cinque slavi e un italiano e dispersi quattro russi e un polacco. Il contributo complessivo alla Liberazione degli stranieri è suffragato da cifre significative: dei 42 partigiani di varia nazionalità di cui è certa l’appartenenza alla formazione, ne caddero in combattimento 8 e 6 risultano dispersi.
Per il testo integrale con le note e i riferimenti iconografici si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.