La sera stessa, prima di ripartire per Perugia, Rocchi ordinò al col. Di Prospero di rimanere sul posto e di perquisire la villa con attenzione, alla ricerca di eventuali altri partigiani. I fascisti si rendevano conto che l’operazione poteva non essere conclusa: “È probabile che tra le rovine e numerosi nascondigli della casa possano esservi altri uomini”. Inoltre Rocchi dispose che le salme fossero sepolte l’indomani nel cimitero di San Pietro a Monte, invitando il parroco a benedirle; però vietò che si apponesse qualche segno sulla tomba e che vi si collocassero dei fiori.
Nonostante le rimostranze dei Santinelli, Di Prospero fece pernottare i suoi uomini nell’edificio già devastato dai combattimenti. Tra coloro che avrebbero dovuto montare di guardia, non tutti fecero il loro dovere. Era sintomo, questo, di una disgregazione già in atto nella GNR, dovuta ora a scarsa motivazione politica, ora a trame imbastite da militi con chi già teneva rapporti con i ribelli. La vigilanza attorno alla villa fu pertanto modesta, proprio per favorire l’eventuale fuga di chi si era nascosto al suo interno. Ad approfittare della cosa fu Lino Mercati, in un primo momento rifugiatosi dietro a una botte, nell’oscurità della cantina.
Non riuscirono invece a scappare tre componenti della banda di Sansepolcro rimasti dentro la villa. Nel rastrellarla, la mattina del 28 marzo i fascisti scovarono nei sotterranei, dentro un armadio, Ermete Nannei, Dorando Gallai e Mario Marcucci. Secondo altre fonti, quella mattina fu catturato anche un quarto partigiano, uno slavo. I prigionieri vennero subito tradotti a Città di Castello per un primo interrogatorio, quindi a Perugia.
Intanto le salme dei nove fucilati erano trasportate su carri agricoli dei Santinelli al cimitero di San Pietro a Monte e sepolte in una fossa comune. Le benedisse don Matteo Giuliani. Al momento della riesumazione, 13 mesi dopo, i corpi sarebbero stati ritrovati seminudi e con le mani ancora legate dietro al dorso.
Come poi si comportarono i militi fascisti a Villa Santinelli quel 28 marzo avrebbe fatto rimpiangere ai proprietari le “requisizioni” dei partigiani. Raccontò Sante Santinelli: “La mattina dopo cominciò il saccheggio sistematico, con asportazione completa di tutta la biancheria di casa e quella personale di tutti i membri della famiglia, compreso il personale di servizio. Dinanzi alle mie rimostranze il Di Prospero, che era presente al saccheggio, mi disse: ‘Lascia correre [illeggibile] hanno salvato la vita’. Le risposi: ‘Io dai partigiani non avevo nulla da temere’. Ed egli: ‘Dunque eravate un loro complice’. Io replicai: ‘Nulla da temere, perché ho la coscienza tranquilla’. Al mattino seguente tutto il bottino veniva caricato su un camion e la squadra ripartiva per Perugia”. Sante Santinelli, sospettato di nutrire idee antifasciste, di lì a qualche giorno sarebbe stato arrestato e incarcerato a Perugia per 42 giorni.
Nella relazione del maresciallo dei carabinieri Emo Fiaschi, vice-comandante del presidio della GNR di Città di Castello, si legge che, oltre alle armi e a un cavallo requisito durante il tragitto verso Villa Santinelli, fu “recuperata la somma di lire 75.000, compendio di truffe e rapine perpetrate dai ribelli in danno dei proprietari”. Dal momento che i prelievi forzosi attuati dalla banda partigiana nella sola zona di Molin Nuovo, secondo le denunce dei possidenti che li subirono, ammontavano quanto meno a 275.000 lire e che altre 22.000 lire erano state prese ai Santinelli, altre ombre finiscono per gravare sulla vicenda. Giovanni Battista Santinelli affermò al processo che Lazzerini, il capo amministrativo della banda, portava con sé una borsa da avvocato contenente una somma ben maggiore di denaro, che teneva sotto il cuscino quando dormiva; nell’interrogatorio subìto quando si arrese, Lazzerini rivelò l’esistenza di questa borsa, che però non fu trovata.
La notizia si diffonde
In quel caotico frangente cominciarono a circolare notizie infondate. In un ritaglio di giornale dell’epoca, purtroppo senza intestazione e data, si legge che i caduti partigiani erano addirittura 19 e non se ne conosceva ancora l’identità: “Non è stato possibile accertare i nomi dei morti, né quelli dei prigionieri poiché essi non avevano documenti di identità, ma erano soltanto contrassegnati da numeri”. Quando poi i fascisti, come monito alla popolazione, fecero pubblicare un manifesto con il titolo “Giustizia è fatta” e l’elenco dei fucilati, alcuni dati erano errati. Risultava ucciso uno dei sopravvissuti, Lino Mercati, e mancavano due vittime: Corrado Luttini e Spartaco Forconi. Inoltre Mordaci e Francini comparivano come Morolacci e Franci. Un altro manifesto illuse Augusto Magnani, padre di Giuseppe: vi era scritto che il Giuseppe Magnani fucilato apparteneva alla classe 1922, quindi si convinse che non si trattava del figlio. Seppe la verità due giorni dopo.
Anche le perdite nello schieramento nazi-fascista vennero sovrastimate. Claudio Longo scrisse: “Quindici fascisti e tre tedeschi giacevano in terra, quando Francini e i suoi uomini esaurirono le munizioni”. In realtà morirono nella battaglia solo i citati Cesare Ceccarani, trentacinquenne di Pierantonio, e Francesco Grassi. Furono ricoverati per le ferite a Città di Castello Lorenzo Rosati, Vittorio Rossi e Filippo Faro, dichiarati guaribili rispettivamente in 60, 30 e 20 giorni. Risultano accertati anche i ferimenti più leggeri di Alvaro Sarteanesi e Andrea Seripa.
I drammatici fatti di Villa Santinelli suscitarono profonda impressione nel Tifernate. Giulio Pierangeli avrebbe così sintetizzato la reazione a livello popolare: “Il giudizio della popolazione sui ribelli fu vario, perché riuscì a tutti incomprensibile una così prolungata permanenza nella villa nelle due giornate del sabato e della domenica, quando una ritirata era possibile; in genere per i nove fucilati – otto dei quali ventenni – vi fu un senso di pietà e di commiserazione”. Quanto ai limiti e alle contraddizioni di quell’azione partigiana, l’avvocato Pierangeli – padre di Stelio, comandante della Brigata Proletaria d’Urto “San Faustino” – scrisse: “[…] l’episodio può spiegarsi solo con la mancanza di capi, capaci di fissare un obiettivo e di adeguare i mezzi all’obiettivo stesso; sterile appare il sacrificio delle nove giovinezze troncate dalla fucilazione”.
Nel suo diario Venanzio Gabriotti, patriota ed esponente cattolico, annotò quotidianamente con sofferta partecipazione le notizie che giungevano da San Pietro a Monte. Del resto si stava battendo nella clandestinità proprio per trasformare quello scoordinato insieme di bande in un efficace movimento di resistenza armata al nazi-fascismo. E chi teneva le fila dell’antifascismo sapeva che lui era “membro di collegamento delle Bande Umbro-Toscane”. Gabriotti, pur nella consapevolezza degli errori commessi dai partigiani a Villa Santinelli e sebbene preoccupato per la spirale di violenza che rischiava di innescarsi, rimase affascinato dal coraggio con cui affrontarono la morte: “Il loro atto è stato inconsulto, ma non dovevano essere uccisi. D’altra parte essi sono morti fieramente dominati da uno spirito di esaltazione che commuove: impassibili, si sono presentati cantando l”Internazionale’! Poveri giovani: ma quanto grandi nell’affermazione del proprio ideale… Benché questo faccia molto meditare sull’avvenire della nostra gioventù! Essi hanno detto che sono sicuri di essere vendicati…”.
Testo privo di note tratto da Alvaro Tacchini, La battaglia di Villa Santinelli e la fucilazione dei partigiani, Quaderno n. 12 dell’Istituto di Storia Politica e Sociale “Venanzio Gabriotti”, Città di Castello 2017.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.