Nel traumatico scenario del conflitto armato e della frattura politica che sconvolgeva la comunità locale, il clero altotiberino svolse il suo ministero generalmente con molta cautela. La Chiesa continuò a mostrarsi deferente verso le autorità governative, ma, soprattutto nelle parrocchie rurali e montane, molti parroci condivisero con la popolazione la crescente disillusione nei confronti del fascismo, il rigetto della guerra e l’ostilità verso i bandi che chiamavano i giovani a continuare a combattere e a lavorare a fianco dei tedeschi. Né si tirarono indietro quando si trattò di sfamare, assistere e proteggere gli ex prigionieri e internati “nemici” che transitarono nel territorio delle loro parrocchie, spesso trovandovi stabili nascondigli. Nel contempo la minacciosa presenza dei tedeschi e i rischi di rappresaglie imponevano di svolgere un ruolo di mediazione, a tutela di una popolazione presa fra due fuochi. Del resto le truppe di occupazione germaniche non tardarono a rendersi conto che nei piccoli paesi l’unica autorità presente e riconosciuta dalla gente era diventata proprio quella del parroco.
Emblematica la vicenda di don Pompilio Mandrelli, a Pietralunga, di cui si parla diffusamente nel volume. Allora quarantaduenne, fu referente di fiducia di partigiani, fascisti e tedeschi. Eppure non esitò a scegliere da che parte stare. Quando, nel dopoguerra, gli fu attribuita la qualifica di patriota, chiese e ottenne di essere riconosciuto partigiano combattente, per aver “preso parte attiva” alle operazioni della Brigata “San Faustino”. Altra nota figura dell’antifascismo militante è il parroco di Morena, don Marino Ceccarelli; promotore e figura carismatica della banda partigiana locale, che confluì nella “San Faustino”, non ebbe remore a imbracciare il mitra e a far fuoco contro i tedeschi. Nel territorio tra Pietralunga e Gubbio fu riconosciuto partigiano combattente anche il trentenne don Paolo Nardi, parroco di San Benedetto Vecchio: per la sua attiva collaborazione con gli uomini alla macchia rischiò la fucilazione. Sempre sull’Appennino umbro-marchigiano, ma più a settentrione, militò nella Brigata Garibaldi “Pesaro” il tifernate don Augusto Giombini, parroco di Pieve dei Graticcioli, presso Sant’Angelo in Vado. Fece della sua canonica un luogo di rifornimento, di incontro e di ristoro per i partigiani, soccorse sbandati, prigionieri evasi ed ebrei, fu staffetta e informatore e partecipò armato ad alcuni pattugliamenti. Rischiò più volte la vita. Scrisse in una memoria: “L’11 luglio 1944 quattro fascisti, ordinatomi l’alt ed io avendo risposto con un ‘no’ secco e gettatogli in viso la veste talare, mi spararono a bruciapelo diversi colpi di pistola. Così fui per la quarta volta miracolosamente salvo dalle palle dei fascisti”.
Altri, come don Luigi Menghi, parroco di Castelfranco presso Pietralunga, non ebbero un ruolo attivo nelle bande partigiane, ma di fatto le sostennero concretamente. Per la sua attività, Menghi ricevette il riconoscimento ufficiale di patriota. Non risulta che l’abbia avuto il parroco di San Donato di Castelguelfo, don Giuseppe Bologni, che pure fu solidale con i partigiani e finì in carcere a Perugia sotto l’accusa di essere uno di loro. Nella zona si adoperò generosamente a favore dei fuggiaschi alla macchia anche il parroco di Aggiglioni don Ivo Andreani.
Dall’altra parte del Tevere, nella valle del Nestoro e zone limitrofe, le bande della Brigata “Pio Borri” attribuirono il riconoscimento di patriota a don Agostino Bartolini, di Badia Petroia, e a don Egidio Calderini, di Rassinata. Ma erano considerati sacerdoti fidati anche don Ettore Mosci, che aveva tre fratelli nella banda di Morra, don Bista Mari, a San Martin Pereto, e il parroco di Ronti don Gino Tanzi. Ad ascoltare di notte Radio Londra nella sua abitazione giungevano talvolta anche i partigiani e per quella radio a galena venne incarcerato a Perugia e minacciato di fucilazione. Per quanto amico dei “ribelli”, don Gino Tanzi non ne condivise le mosse più avventate, che avrebbero potuto ritorcersi contro la popolazione, e raccomandò costantemente prudenza.
A Città di Castello, in virtù dell’attività antifascista di Venanzio Gabriotti una parte significativa dell’ambiente cattolico era schierato a sostegno della Resistenza. Don Bernardo Topi si incontrava spesso con Gabriotti nella casa parrocchiale del duomo, dove nascose anche due ebrei e un ufficiale americano fuggiasco. E Gabriotti vide a casa di don Giuseppe Pierangeli l’oppositore democristiano di Prato Leopoldo Pieragnoli. Punto di riferimento importante per i giovani della città era l’oratorio di San Giovanni in Campo promosso da don Vincenzo Pieggi. Durante il periodo del fascismo repubblicano, il sacerdote si rifiutò di prestare giuramento al regime e fu radiato dall’Opera Nazionale Balilla, nella quale svolgeva opera di consulenza spirituale. Invece andò a trovare i “suoi” ragazzi alla macchia a Montebello, portando da Città di Castello rifornimenti raccolti insieme a Gabriotti e ad altri esponenti cattolici. Pieggi li rincuorò e disse di condividere la loro scelta.
In Valtiberina toscana la Chiesa perse uno dei suoi sacerdoti per mano dei fascisti: don Giuseppe Tani, parroco di Casenovole (Anghiari). Il regime sospettava che la sua canonica fosse luogo di incontro di partigiani e antifascisti. Così ordì una trama che portò all’arresto in tal luogo del sacerdote, del fratello Sante – dirigente della Resistenza aretina – e di un altro partigiano, poi torturati in prigione ad Arezzo e uccisi durante un tentativo di evasione. Sempre nell’Anghiarese, vittima dei tedeschi fu don Domenico Mencaroni, parroco di Verrazzano ed economo spirituale di Toppole. Gli spararono perché lo ritennero un favoreggiatore delle bande partigiane e – si disse – per aver trovato nella sua canonica giornali cattolici con articoli di contenuto ostile al nazionalsocialismo. Scampò invece per poco alla fucilazione don Alessandro Bartolomei, un altro sacerdote che simpatizzò per la Resistenza. A Sigliano dette prima rifugio a internati evasi da Renicci e a una famiglia di ebrei; poi rischiò di essergli fatale la diceria che ascoltasse clandestinamente la radio e che fungesse da informatore dei partigiani. Quando ormai si sentiva perduto, davanti a una pattuglia delle SS pronta a far fuoco, si salvò per l’intervento di un maresciallo tedesco che aveva ospitato nella canonica.
Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.