Il 6 aprile comparve il manifesto del ministro delle Forze Armate Rodolfo Graziani per il richiamo alle armi nell’esercito delle classi 1916-1917; poneva come scadenza la data del 25 aprile. In quei giorni Mussolini emanò un nuovo bando: la repressione della renitenza e della diserzione fu associata a una durissima offensiva per stroncare l’attività delle bande partigiane. Era il 18 aprile e si intimava ai militari e ai civili che avevano “abbandonato il reparto o l’abitazione per unirsi alle bande operanti in danno delle organizzazioni militari e civili dello Stato” di costituirsi entro 30 giorni. Altrimenti sarebbero incorsi nella “pena di morte mediante fucilazione alla schiena”. Stessa pena per i loro favoreggiatori e per chi li assisteva con vitto e alloggio. Si stabilì pure la confisca dei beni dei colpevoli. Coloro che fossero stati sorpresi armi alla mano, sarebbero stati “immediatamente fucilati nel luogo stesso della cattura, senza bisogno di alcun giudizio”. Per favorirne la resa, i “gruppi di sbandati” vennero autorizzati a inviare un loro esponente per prendere accordi sulle modalità della presentazione e della consegna delle armi. L’annullamento della pena per chi intendeva costituirsi venne presentata dal Capo della Provincia di Perugia Armando Rocchi come un contributo “alla pacificazione sociale interna auspicata da tutti gli italiani”, con l’intento di salvare la vita a quanti erano stati spinti “ad unirsi a tali bande da minacce dirette ad essi e a loro famigliari, o da timori infondati e da incertezze”. Proprio l’incertezza sulla propria sorte dopo l’arruolamento spingeva molte giovani reclute verso la renitenza.
Presentando l’iniziativa governativa come “altamente umanitaria” e “patriottica”, Rocchi invitò i vescovi a mobilitare i sacerdoti affinché svolgessero una capillare opera di persuasione e riconducessero “sulla via dell’onore e della legalità una massa di sbandati dediti alla rapina ed al saccheggio”. Il vescovo di Città di Castello, mons. Filippo Maria Cipriani, inoltrò ai suoi parroci la richiesta del Capo della Provincia e, pur raccomandando di svolgere il ministero spirituale “al di sopra e all’infuori della politica”, in sostanza l’appoggiò: “Voi non avete certo comunicazione con questi elementi; ma presso le famiglie della vostra Parrocchia potete e dovete esercitare opera di persuasione perché questi poveri giovani illusi e forse ingannati abbiano a salvarsi ed a salvare anche l’onore della famiglia e dell’Italia. Fate tutto quello che è possibile, convincendo altresì tutti i giovani, che hanno l’obbligo di leva, a compiere il loro dovere, abbandonandosi nelle mani di Dio, forti della loro coscienza retta nell’operare cristianamente e italianamente”. Molti sacerdoti, però, agirono secondo le convinzioni personali maturate; rimanere “al di sopra e all’infuori della politica” significò per essi il rispetto anche delle scelte degli oppositori del regime e, conseguentemente, garantire loro la necessaria assistenza spirituale e materiale.
Il termine ultimo concesso dal Bando del Duce a renitenti e disertori per presentarsi presso le autorità fasciste o tedesche fu successivamente prorogato alle ore 24 del 25 maggio.
Per il testo integrale, con le note e le fonti delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.