Eliana Pirazzoli (1922-2017) è stata una figura di spicco della vita tifernate del secondo dopoguerra. Insegnante, giornalista de “Il Messaggero”, intellettuale raffinata, ha accompagnato le vicende di questi anni con un’intensa partecipazione. Ha molto da raccontare anche dei suoi anni giovanili, vissuti tra regime fascista e guerra.
Proprio durante la seconda guerra mondiale il segretario del Fascio di Città di Castello, Fausto Desideri, era condomino della sua famiglia. Vedovo, abitava al piano di sopra della loro villetta di via XI Settembre con la figlia Ada, insegnante.
“Il Sor Fausto era benvoluto dalla gente. Qui a San Giacomo, quando riusciva a racimolare qualcosa, la dava per primi ai Cenciarini, la famiglia più numerosa e più povera. Da ex maresciallo dei Carabinieri, sapeva mettersi in rapporto con la popolazione”.
Con un segretario del Fascio in casa, lei doveva essere più informata di altri; cosa vi diceva lui della guerra?
“Con la sua saggezza diceva che la guerra ci voleva, ma bisognava farla corta. Allora si era davvero convinti che la guerra potesse durare poco e con grandi vantaggi per l’Italia”.
Una guerra giusta, dunque…
“Non solo. Per i fascisti la guerra era una cosa ovvia: siccome credevano che inglesi, americani e russi erano contro di loro, bisognava combatterli. E una volta che la guerra era dichiarata, bisognava portarla fino in fondo”.
Credevate a tutto quello che vi dicevano?
“Certo. Bisogna ricordare che allora c’era un rispetto assoluto per la gerarchia, un rispetto che ora non esiste più: se una cosa l’affermava chi ne sapeva più di me, voleva dire che era vera”.
Disturbava l’alleanza con la Germania?
“Ma a chi importava! Erano i nostri alleati e basta. Se tu sei mio alleato, sei mio amico, il discorso finiva lì”.
Voi giovani intellettuali veniste coinvolti dal regime per iniziative propagandistiche soprattutto all’inizio della guerra.
“Allora io ero Giovane Italiana e siccome il sor Fausto era qui di casa, ogni tanto mi diceva: ‘Ci andresti a spiegare…’ Ma non erano scelte, le nostre, che avessero un senso politico. Era anche un modo, per noi di maggiore cultura, di trasmettere le nostre conoscenze agli altri. Però non si poteva fare sfoggio della nostra cultura… No! Se si era mandati a certe manifestazioni, si dovevano dire certe cose… Ricordo che bisognava calmare l’animo delle donne: ‘I nostri soldati non vanno mica tutti a morire, questa è una guerra diversa’. Avremmo dovuto far capire che non c’erano più le schioppettate. Invece…”
In epoca fascista crebbe il protagonismo delle donne nella vita pubblica. Però le si voleva soprattutto insegnanti, educatrici, assistenti sociali, crocerossine, oltre che angeli del focolare…
“La visione del fascismo era quella. È vero che con il fascismo il ruolo pubblico della donna viene riconosciuto, e ne viene riconosciuta la capacità intellettuale, pur confinata nell’ambito di certi campi di intervento. La signora Dernini, segretaria del Fascio, era una donna con il cervello, cattolica, amica della Virginia Sinnati, l’esponente di spicco del cattolicesimo tifernate femminile. Però l’aspetto rigidamente gerarchico del fascismo dava fastidio alle donne. Sono convinta che il fascismo sia caduto anche perché aveva creato una struttura gerarchica eccessiva, troppo organizzata, ossessiva. In una famiglia succedeva che quel bambino andava a fare il Balilla a una certa ora, quell’altro a fare l’Avanguardista da un’altra parte…. Una dittatura invasiva, che ti soffocava la libertà intellettuale”.
Lei, all’epoca, sentiva in qualche modo soffocata la sua libertà intellettuale?
“Io sì, assolutamente. Avevi la sensazione che la programmazione della tua vita fosse in mano di altri. E poi a me dava fastidio che non si potesse comunicare diversamente. Il rispetto della gerarchia significava incanalarsi su certe idee e non poterne uscire. A me il tipo di partecipazione proposto dal fascismo non è mai piaciuto. Difatti, appena ho potuto, sono diventata crocerossina, perché era un’altra cosa”.
Aveva mai sentito voci ostili al fascismo?
“Certo, ma il fascismo lo si prendeva come un dato di fatto: c’era e in certi casi bisognava sopportarlo. Si cercava di salvaguardare i propri spazi all’interno di un regime che nessuno pensava di mettere in discussione”.
Qualcuno le mise mai le pulci nelle orecchie contro il regime?
“Nessuno. La paura era tanta”.
Nemmeno nelle libreria di Paci, che lei frequentava abitualmente?
“Anche se Giuseppe Paci era antifascista, la sua bottega non è stato un covo di antifascisti. Oltre a me la frequentavano i fratelli Alvaro e Nemo Sarteanesi, l’architetto Giorgio Giorgi, i fratelli Dante e Angelo Baldelli, Aldo Riguccini, l’avv. Luigi Pillitu, Matteo Fortuni, Raffaele de Cesare, Alberto e Vittorio Burri. Eravamo persone talmente diverse l’una dall’altra, con sollecitazioni personali molto diverse. La cosa importante, da Paci, era che si parlava con grande libertà. È stato il primo e il più importante momento in cui s’è detto: ‘Parliamo di qualcos’altro!’. Un qualcos’altro che poteva essere non politico; anzi, politico quasi mai. Ricordo comunque che ogni tanto ci veniva anche un vecchio socialista, Giuseppe Fortuni, che a modo suo ci spiegava cosa era davvero il fascismo. Diversi di quel gruppo erano di San Giacomo (Sarteanesi, Giorgi); si stava da Paci fin verso l’ora di pranzo, poi si ‘prendeva il trenino per San Giacomo’, ci si accompagnava a casa. Io sono stata la ‘sorella’ di tutta questa compagnia, perché ero l’unica ragazzetta. Ringraziando Dio, manco bella, così non ci sono state mai idee diverse… Con qualche ciurlone in caso di bisogno… C’era un affetto vero, e una curiosità enorme”.
La libreria Paci è stata quindi una palestra di dialogo, di democrazia.
“Non solo, anche di grande affetto reciproco fra queste persone. Nessuno di noi era in floride condizioni economiche, alcuni andavano avanti con borse di studio, e Paci ci permetteva di studiare lì, di leggere lì in bottega i libri che costavano tanto”.
Chi appariva più convintamente fascista di questo gruppo di suoi amici?
“Nessuno, nemmeno Alberto Burri, che in queste cose era di un pudore incredibile”.
Naturalmente anche lei fu inquadrata nell’Opera Balilla a Città di Castello.
“Il sabato fascista lo facevo come tutte. Non si andava a scuola. Qualche sfilata di rito. Per noi ragazzine le adunate erano rarissime. Ci incontravamo alla Casa della Piccola Italiana, con la signorina Fernanda Francioni, una maestra elementare. Era una dirigente fascista così… essendo maestra continuava a fare la maestra. Leggevamo poesie, canzoni patriottiche, poesia epica, roba scolastica… Non ci addestravano a niente. Solo educazione patriottica e dei sentimenti, per diventare brave italiane e ‘angeli del focolare’. I risultati si vedono: guarda me… Non si facevano corsi di educazione domestica, che erano riservate alle Massaie Rurali.
Quando è diventata crocerossina?
“Io ho completato gli studi fino al terzo liceo qui a Castello, poi ho studiato a Pisa. Il corso di crocerossina l’ho fatto sia là, sia qui, con una grande ispettrice della C.R.I., la signora Malwida Montemaggi, una donna di straordinaria levatura. Prima ancora di finire il corso ho chiesto la mobilitazione e ho iniziato a fare servizio a Montecatini. Allora tutti quegli alberghi erano ospedali. C’era un grandissimo movimento di feriti, anche perché arrivavano fino a lì con i treni-ospedale da tutti i fronti bellici”.
Subito nella mischia, dunque…
“Sì. Avevo la responsabilità di un reparto, con il grado di sottotenente”.
Che idea si fece della guerra, da crocerossina?
“In un ospedale militare si è totalmente assorbiti dall’assistenza ai feriti. Non ci si chiedeva niente sul merito della guerra, come stesse andando; si badava a fare il nostro dovere, a dare sollievo ai feriti. E non mancavano situazioni imbarazzanti. Quando si entra in un ospedale militare si pensa di curare tutti allo stesso modo. Invece gli ufficiali vorrebbero ancora essere più importanti del soldato e non è facile far loro capire che per noi sono tutti sullo stesso piano. Con gli ufficiali superiori ci si combatte male”.
Che cosa raccontavano della guerra i feriti?
“Non raccontavano. Ho avuto ricoverato un giornalista che veniva dal fronte russo. Una persona in gamba, molto professionale. Non raccontava mai niente. E poi avevamo l’obbligo di non farli parlare, di non interrogarli, di non stimolare i loro sfoghi. Se capitava che si sfogavano su questioni di guerra, doveva finire lì. Anche per non stabilire dei rapporti di eccessiva confidenza. Dovevamo mantenere il distacco professionale”.
Che effetto fece in lei la prima caduta del fascismo e l’arresto di Mussolini, il 25 luglio 1943?
“La caduta di Mussolini l’ho presa come una fatalità, una cosa che doveva accadere. Non ho provato sensazioni particolari; il fascismo era caduto come una pera matura. E poi il fatto di essere crocerossina mi ha aiutato ad rimanere molto distaccata dagli avvenimenti politici”.
In seguito si iscrisse al Partito Fascista Repubblicano?
“No, non mi sono iscritta al P.F.R.”
Di quanto consenso godeva il fascismo repubblicano?
“Io non l’ho sentita l’adesione popolare al regime durante il fascismo repubblicano. Ricordo che anche Fausto Desideri alla fine aveva perduto l’entusiasmo”.
Rimase sempre con la C.R.I. a Montecatini?
“No. Da Montecatini sono stata poi mobilitata a Castello. Qui al convitto dell’Agraria c’era un ospedale dei fascisti repubblicani. Ci portavano quelli che riuscivano a catturare, i banditi, così li chiamavano. C’erano una quindicina di letti. Una mattina ci ha chiamato il capitano: ‘C’è un ferito gravissimo’. Io e l’ispettrice Montemaggi siamo subito corse là. Abbiamo trovato un giovane con una ferita trasfossa dall’inguine fino alla fine della gamba. Aveva tutta la gamba aperta. Appena ci ha visto, ha detto: ‘Io mi chiamo Mario Grecchi e sono di Perugia. Sono della Brigata del Buontromboni. Sorella, qui c’è da fare qualche cosa, perché ho sentito che vanno a perquisire casa mia. Li ammazzano tutti. Io ho in casa documenti compromettenti’. E noi: ‘Stai tranquillo, in qualche modo faremo…” La signora Montemaggi inviò un uomo di fiducia a Perugia; ci andò in bicicletta e riuscì ad avvertire e a salvare la famiglia Grecchi. La mattina seguente siamo tornati all’Agraria per dire al giovane che tutto era a posto, ma lui non c’era più; l’avevano portato a Perugia. Allora siamo partite subito per Perugia, ma l’avevano già fucilato”.
Lei era in città quando fu bombardata Umbertide, il 25 aprile 1944.
“Sì, io e l’ispettrice Montemaggi siamo accorse subito con l’ambulanza. Abbiamo composto i morti nella Collegiata, ormai non c’era altro da fare. Tutti quei morti in fila… quelle creaturine… C’era il corpo di una signora incinta, con la sua bambina appoggiata sopra le gambe. La Montemaggi, con la sua squisitezza, m’ha detto: ‘Adesso la mettiamo vicino alla sua mamma, che le dà la mano, perché questa piccinina ha paura…’ Che brutta esperienza. Un bombardamento terribile”.
Un periodo drammatico. Pochi giorni dopo a Città di Castello fucilarono Gabriotti.
“La mattina della sua fucilazione, io e l’ispettrice Montemaggi abbiamo incrociato un gruppo di fascisti che cantavano, con il tenente Faro in testa. Gabriotti era prigioniero in fondo al gruppo, chiuso da due militi. Noi non pensavamo che l’avrebbero fucilato; poteva trattarsi di un semplice trasferimento dal carcere alla stazione ferroviaria. […]Erano in pochi: davanti questo tenente Faro, uno studente universitario siciliano. Tutti in divisa grigio-verde, con la camicia nera sotto. Se chiudo gli occhi, ancora li rivedo. Erano tutti forestieri. Non ho riconosciuto nessuno di Castello. Gabriotti non mi ha visto: camminava quasi in fondo. Quattro davanti e altri tre o quattro dietro. Tempo dopo mi è capitato fra le mani un documento manoscritto di Faro: c’era scritto che non riusciva ad avere più pace perché gli continuavano a tornare in mente gli occhi di Gabriotti prima che lo giustiziasse”.
Si stava avvicinando il passaggio del fronte, il periodo più critico per la popolazione.
“In quei giorni con l’ispettrice Montemaggi ho dato una mano anche all’ospedale d’emergenza improvvisato da mons. Schivo al Seminario durante lo sfollamento dalla città. Noi siamo rimaste in città, dividendoci tra l’ospedale civile, prima che i tedeschi lo saccheggiassero, e quello del Seminario”.
Fu mons. Beniamino Schivo a pendere l’iniziativa di impiantare un ospedale di emergenza al Seminario.
“Mons. Schivo ha fatto tantissimo per la città, che dovrebbe essergli grata. Non era facile tenere in piedi un ospedale di emergenza del genere. Si andava sempre da lui a chiedere tutto quello che mancava. Lui non ha mai perso il suo aplomb; sempre umano, gentile con tutti. Un grande carisma. Quei giorni al Seminario, per noi infermiere, sono stati di grande prova: la roba non c’era, la gente andava medicata… E Schivo continuava a raccogliere in giro tutti quelli che dovevano essere curati. Gli davano una mano anche le suorine dell’Ospedale, ormai abbandonato”.
Purtroppo quelle settimane hanno visto la città saccheggiata sia dai tedeschi che da gente del posto.
“Le scene di saccheggio erano all’ordine del giorno. Non ci si faceva più caso. La mattina io e l’ispettrice Montemaggi ci si trovava alla chiesa di Santa Veronica per dire una preghiera prima di cominciare una giornata così difficile. Quanta gente si incontrava con i sacchetti, che era stata sulle case a rubare! Si rubavano fra poveri…”
Che ricordi ha del giorno della Liberazione, il 22 luglio 1944?
“Non lo ricordo proprio; ero sicuramente nell’ospedale del Seminario, intenta al lavoro. Non ho mai smesso la divisa di crocerossina, per tutta la guerra”.
Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 3 novembre 2006. Pubblicata quasi integralmente ne “L’altrapagina”, gennaio 2007. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.