Marco Odoardi. Il “dottore” delle aziende.

 

Quella di Marco Odoardi, ingegnere tifernate di 39 anni, non è stata finora una vita ordinaria e sedentaria: “Avevo voglia di provarmi in ambienti diversi e ho cambiato completamente strada almeno tre volte negli ultimi 15 anni. Prima a Monaco di Baviera, al Centro Aerospaziale Tedesco. Poi mi sono spostato in Eni, dove per 8 anni ho viaggiato e lavorato in posti dove, per divertimento non andresti mai: Nigeria, Congo, Angola. Tanta Africa… Ma anche Siberia, India e, fortunatamente, Londra, dove sono rimasto per quasi due anni. Infine, negli ultimi 8 anni, tanta Europa, Russia, India, Cina e Stati Uniti: le aree del mondo dove l’economia gira”.
Marco si laurea in ingegneria elettronica a Perugia nel 2000: “Non so bene nemmeno perché ho preso quella facoltà. Forse per avere una laurea ‘pesante’ sul curriculum, o forse per seguire le orme di mio padre. Fatto sta che di quella laurea ne ho fatto ben poco e da molti anni mi occupo di strategie aziendali. Sono probabilmente un ingegnere con la ‘i’ minuscola”.
È stato un suo docente dell’Università di Perugia a indirizzarlo al Centro Aerospaziale Tedesco. Andatoci inizialmente per scrivere una tesi, vi è poi rimasto come ricercatore nel settore delle trasmissioni satellitari: “Per certi versi è stata una mezza follia: sono arrivato a Monaco che non parlavo né il tedesco né l’inglese. Non so nemmeno come facessero a capirmi! Oramai l’inglese lo parlo bene, ma la pecca della scuola italiana, nel non insegnare decentemente l’inglese, è imperdonabile!”
A Monaco Marco si rende conto che quel genere di ricerca non lo appassiona. Non vi rimane quindi che un anno; ma è in quell’anno che prende gusto a lavorare in un ambiente internazionale e a viaggiare. Cominciano così le sue peregrinazioni: “Di lì a poco mi sono trasferito a Milano, poi a Londra, per poi tornare e cambiare ancora, passando dall’industria petrolifera alla consulenza direzionale. Un salto carpiato dopo l’altro. Ma sono un curioso e un amante del rischio”.
Il suo ultimo ambito di lavoro, alla McKinsey & Company, probabilmente l’azienda di consulenza più rinomata al mondo, Marco lo descrive così: “Quando mi chiedono cosa fa un consulente direzionale, mi piace rispondere con le parole della nipotina di un collega: ‘Facciamo i dottori delle aziende: visitiamo, facciamo la diagnosi e molto spesso l’azienda guarisce’”.
Lavorare in questo settore lo ha portato necessariamente a girare per il mondo, praticamente cambiando città e nazione ogni tre mesi: “Mi sento un ‘homeless’, un ‘senza-casa’, perpetuamente con il trolley e il passaporto”.
Cosa significhi essere un ‘senza-casa’, Marco lo spiega così: “Ho viaggiato davvero tanto per lavoro negli ultimi 6 anni, dai 2 ai 4 voli per settimana, per andare dappertutto. Significa sostanzialmente essere sempre in viaggio, avere lo stretto necessario nel trolley, svegliarsi in un albergo diverso tutti i giorni, conoscere molto bene gli aeroporti e gli orari dei voli e spesso rimanere fuori anche nel week-end. Questo presenta aspetti positivi, come avere amici dappertutto e vedere posti fantastici o incredibili (anche per bruttezza). Ma anche aspetti negativi. È difficile stare lontani dagli affetti e dalla famiglia, sentirsi spesso così stanco e in preda al jet-lag da essere quasi catatonico quando ci si telefona a tarda notte”.
Oltre alle soddisfazioni professionali e alle gratificazioni umane, tutto questo girovagare si è rivelato fonte di innumerevoli aneddoti: “Si, storie da raccontare ai nipotini, di atterraggi di emergenza, di vita in piattaforma petrolifera e di situazioni al limite dell’inverosimile. Come quando a Luanda, in Angola, leggo che in aeroporto avevano rubato un Boeing 747! O quando ho chiesto, in un aeroporto congolese, a che ora sarebbe arrivato l’aereo; mi hanno risposto: ‘Non lo sappiamo, non abbiamo il radar… se vuole telefono all’aeroporto di partenza per sapere quando è partito’… O, in Nigeria, dove la sala d’aspetto dell’aereo era un vecchio container, appoggiato in mezzo alla jungla, con le finestre tagliate con la seghetta da ferro. O l’aereo ‘puzzle’, costruito con i pezzi di scarto di aereo vecchi: non c’era un sedile uguale all’altro”.
Marco racconta queste storie divertito, ma non con l’aria di superiorità dell’occidentale verso i paesi in via di sviluppo. Di ben altro si è reso conto nei suoi viaggi: “Soprattutto la certezza che nel mondo civilizzato abbiamo perso il senso della felicità. Ho visto molta più felicità a Luanda, Port Harcourt, Pointe Noire, dove l’aspettativa di vita è di 40 anni e la mortalità infantile è altissima, che nella civilissima Milano”.
Domando a Marco quale sia l’immagine dell’Italia e degli italiani all’estero: “Anche gli amici mi chiedono spesso come ci vedono dall’estero: con ammirazione e sbigottimento, rispondo. L’Italia ha un fascino folle sugli stranieri e l’italiano, quello non sbruffone e maleducato, viene ammirato per cultura ed eleganza. Ma c’è anche sbigottimento per come riusciamo ad accettare cose inaccettabili, che sono un insulto alla nostra intelligenza. E per la mancanza di memoria”.
Marco, nella sua carriera professionale, ha dovuto prendere atto che le opportunità professionali migliori, oggi come oggi, sono all’estero. E che all’estero è più possibile, e più facile, un percorso basato sulla meritocrazia:
“È un dato di fatto che l’ascensore sociale, cioè la possibilità di migliorare lo status sociale in base alle proprie capacità, sia bloccato in Italia. Quello che, in maniera abusata, è chiamato l’American Dream, cioè partire dal nulla per diventare qualcuno, in Italia non è – quasi – possibile. Le radici e lo status iniziale contano, decisamente troppo. Però vorrei sottolineare che l’ascensore è inibito anche dal tipo di tessuto industriale italiano, fatto prevalentemente di aziende medio-piccole a conduzione familiare. In queste aziende, in genere, tutte le posizioni di rilievo sono coperte dal fondatore e dalla sua famiglia. C’è poco spazio per figure esterne. E le persone brillanti e già presenti in azienda restano spesso in posizioni di ripiego”.
Marco poi suggerisce un’ulteriore riflessione, molto fondata in una realtà come la nostra, arrivata a concepire come un diritto, o un mito, il posto di lavoro a tempo indeterminato, “l’entrare in ruolo”, la certezza di non poter essere licenziati: “Forse, culturalmente, non siamo nemmeno del tutto pronti ad una meritocrazia estrema. Negli ultimi 15 anni ho avuto modo di lavorare in ambienti dove la meritocrazia era davvero spinta, con valutazioni di performance ogni 3 mesi, che potevano voler dire promozioni immediate o allontanamento, altrettanto immediato, dal lavoro. Ecco, siamo pronti in Italia a questa forma di meritocrazia? Veniamo pur sempre dal mito del posto fisso. Siamo pronti a rischiare il posto per essere premiati, se davvero lo meritiamo?”
Un interrogativo legittimo, di difficile risposta. Certo è che il rimettersi in gioco non è un problema per Marco: "Si è aperta una nuova sfida professionale in Svizzera e probabilmente la coglierò (altro salto carpiato).Mi sarebbe piaciuto di più che fosse un concittadino a cercarmi e lavorare in Umbria. Ma tant’è; si prende il trolley e si riparte!”
Chiedo a Marco cosa si porta dietro di emblematico della nostra valle. E lui: “Il panino con la porchetta il sabato mattina in piazza, il pranzo dalla mamma e la colazione al Bar Pinocchio quando sono in ferie”.
Poi, in realtà, esprime un desiderio che rivela un grande attaccamento alla nostra terra: “Dopo tanto viaggiare, mi piacerebbe ora fermarmi e godermi l’Alta Valle del Tevere. E mi piacerebbe prendere un caffè con qualche imprenditore o amministratore, per scambiare punti di vista ed idee sul rilancio delle nostre aziende”.
Quella di Marco Odoardi, uno dei giovani “cervelli” costretto ad emigrare per realizzarsi, è la disponibilità a dare una mano: “Vorrei anche contribuire alla vita pubblica, non da politico, ma mettendo a disposizione quello che so fare: aiutare le aziende a risolvere i loro problemi, diventare più competitive e crescere. L’ho fatto per tanti anni, in giro per il mondo, mi piacerebbe farlo anche a Città di Castello”.
Gli amministratori pubblici e gli operatori economici darebbero davvero un segnale importante, in una situazione di crisi come la nostra, se sapessero valorizzare questi “talenti” che abbiamo, sparsi per il mondo. E per far capire che la sua non è una disponibilità a chiacchiere, Marco ci tiene a lasciare il suo recapito: marco.odoardi@libero.it.
 
L’intervista è stata pubblicata nel numero di novembre 2013 de “L’altrapagina”.