Michele Vanni. Vivere e lavorare a New Delhi.

 

Oggigiorno un giovane neolaureato deve essere cosciente che la competizione per il posto di lavoro non è più come una volta un affare limitato a lui e a un suo ex compagno di corso, ma riguarda piuttosto lui e un suo coetaneo in India, Cina, Corea del Sud, Brasile e Russia. Molti giovani occidentali l’hanno capito e reputano oggi normale iniziare la propria carriera all’estero, anche in uno di quei Paesi che ho appena menzionato”.
Sono parole di Michele Vanni, un tifernate di 33 anni che questa scelta la sta vivendo. Da tempo in India, Michele assiste con preoccupazione al progressivo ridimensionamento della vecchia Italia: “Stiamo attraversando un periodo della storia in cui gli assetti di potere politico-economici si stanno ridisegnando e la nostra Italia non sembra rientrare nel club esclusivo di quei Paesi che avranno un ruolo determinante nel 21° secolo”. Un destino che investe altri Stati europei in crisi: “C’è un detto tra i giovani spagnoli che da due anni a questa parte sono arrivati a frotte in India per lavoro: Ci sono tre modi per uscire dalla disoccupazione in Spagna: via aerea, via terra, via mare”.
Michele è rimasto a Città di Castello fino al 2005, quando si è laureato presso l’Università degli Studi di Perugia in Scienze della Comunicazione con indirizzo in giornalismo. Subito dopo ha preso la via dell’estero.
Ho vissuto per un anno in Inghilterra, per rimediare a una delle tante pecche dell’istruzione italiana, cioè l’insegnamento della lingua inglese. Poi, grazie ad una borsa di studio offerta dall’Unione Europea, ho lavorato per circa cinque mesi a Malta, al Centro Immigrazione di La Valletta”.
Michele sperava che, in virtù dell’esperienza maturata all’estero, fosse più facile trovare lavoro. Invece è andato incontro a una cocente disillusione: “A livello occupazionale ho trovato una situazione terribile, non solo nell’Alta Valle del Tevere, ma in Italia in generale. Alla fine sono riuscito solo ad ottenere, tramite un programma d’inserimento professionale per i giovani promosso dalla Regione Umbria, uno stage retribuito presso una nota azienda di Città di Castello”. Appena sei mesi di lavoro, poche soddisfazioni professionali e… tanta noia.
A quel punto la svolta. Michele viene a sapere da un’amica che una multinazionale indiana del marketing stava assumendo personale straniero da integrare a quello locale ed era alla ricerca di un madrelingua che gli coprisse il mercato italiano. Ecco il suo racconto:
Come dicono gli indiani, forse è stata una questione di Karma, cioè di destino. Ho inviato il curriculum, ho fatto il colloquio tramite Skype e ho ottenuto un contratto biennale. Mi sono ritrovato a lavorare come analista di mercato assieme a 2.500 giovani neo-laureati indiani e a un centinaio di stranieri: un’esperienza di enorme valore sia sul piano professionale che su quello personale”.
Poi, però, anche la giovane economia indiana viene investita nel 2009 dalla recessione nata negli Stati Uniti con lo scandalo dei mutui sub-prime: “A molti stranieri non venne rinnovato il contratto. Personalmente sono riuscito a difendere il mio di posto di lavoro; ma in azienda è venuta a mancare quell’atmosfera cosmopolita che aveva reso quell’esperienza lavorativa unica sino a quel momento”.
Michele decide quindi di mettersi ancora in gioco. Si licenzia, ma cerca un nuovo impiego ancora in India: “Adesso lavoro a New Delhi come responsabile commerciale estero per una nota compagnia fiorentina operante nel mondo delle spedizioni: la ‘Savino del Bene’. Trascorro la maggior parte del tempo in viaggio, visitando fabbriche di aziende occidentali – principalmente italiane – che hanno deciso di delocalizzare la propria produzione in India e organizzo per conto loro il trasporto della merce sia via mare che via aerea”.
Un lavoro che può gratificare solo chi è aperto mentalmente: “Lavorare in logistica in un Paese così povero di infrastrutture, in cui esiste un esteso network di autostrade informatiche, ma ancora ne manca uno di autostrade vere e proprie, rappresenta sicuramente una difficile sfida quotidiana. Bisogna poi confrontarsi quotidianamente con colleghi indiani il cui modus operandi è totalmente diverso dal proprio. La gratificazione risiede nella capacità che ad un certo punto si raggiunge nell’uscire dai propri schemi mentali e accettare che al mondo vi sono altri modi di intendere il lavoro, i rapporti e gli affari”.
Michele dà un esempio efficace di quanto possano essere diversi gli atteggiamenti verso il lavoro: “In India il tempo ha una forma circolare, ciò deriva dalla convinzione che l’anima di un individuo è soggetta al perenne ciclo di nascite e di morti. Questa basilare concezione temporale influenza a molti livelli l’atteggiamento che l’indiano ha nei confronti di vari aspetti della vita, compreso quello lavorativo. La compilazione di una pratica, per esempio, non ha uno sviluppo lineare, ma viene iniziata, messa da parte, ripresa più tardi. Stessa cosa potrebbe dirsi per una contrattazione che, proprio quando ci si aspetta sia giunta al termine, spesso ricomincia da capo. Nella cultura lavorativa indiana non esiste né quel senso d’urgenza né quell’approccio lineare tipico invece della tradizione occidentale”.
Anche il radicale cambiamento dello stile di vita richiede grandi capacità di adattamento: “La quotidianità in India è disseminata di imprevisti e disagi che per noi italiani, abituati ad un certo comfort, risultano ardui da sopportare. Ancora oggi nelle principali città indiane mancano infrastrutture capaci di fornire continuativamente acqua corrente ed elettricità alle abitazioni: capita così che nella notte più calda d’estate (48 gradi) si rimanga a corto sia dell’una che dell’altra”.
E non deve apparire strano che si finisca con il rimpiangere la “piazza”, o lo struscio lungo un corso: “Ciò che a me più manca dello stile di vita italiano è la possibilità d’usufruire di uno spazio pubblico in cui passeggiare, incontrarsi e scambiare due chiacchiere. In una megalopoli come Delhi non esiste un centro città come lo intendiamo noi e la strada è un luogo destinato alle sole autovetture e ai poveri senzatetto che sempre più numerosi affollano le città”.
Pur mantenendo stretti contatti, e talvolta rapporti di amicizia, con giovani colleghi di lavoro, Michele generalmente trascorre i fine settimana con un gruppo ristretto d’espatriati. Ne spiega la ragione: “La mia frequentazione con la gente del posto è rimasta limitata al contesto lavorativo perché in India il concetto di tempo libero sta prendendo piede solo ora; tradizionalmente la vita di un individuo è divisa tra il lavoro e la famiglia”.
Chi proviene dal mondo occidentale è quindi testimone dei cambiamenti epocali che, pur tra forti resistenze, stanno avvenendo in India. I giovani ne sono i protagonisti indiscussi: “L’allentamento dei catenacci che per decenni hanno imbrigliato sia gli scambi commerciali con l’estero sia l’iniziativa privata ha permesso a molti giovani non solo di accedere a modelli di consumo d’importazione occidentale, ma addirittura di creare ex-novo un modello economico basato sui più recenti ritrovati della tecnologia digitale. Ma il dinamismo e le ambizioni dei giovani stanno oggi facendo i conti con una tradizione culturale che oppone la massima resistenza al cambiamento”.
Vivere in India impone di confrontarsi con il suo variegato e affascinante ambiente religioso: “Se è vero che Dio è ‘in cielo, in terra ed in ogni luogo’, mi verrebbe da dire che in India lo è più che altrove. In India sono presenti tutte le principali confessioni religiose e, salvo rari episodi di intolleranza, sembra che queste riescano a convivere pacificamente le une accanto alle altre. Visitando Delhi, per esempio, non è raro vedere affacciarsi sulla stessa piazza un tempio induista, uno Sikh, una moschea mussulmana e una chiesa cristiana. Certo, il paese rimane a maggioranza induista; l’induismo, tuttavia, col suo panteon di oltre 300.000 divinità è, come dicono gli indiani, più uno stile di vita che una religione. Insomma, Dio in India ha molteplici volti e nomi”.
Michele sta toccando con mano quanto siano diverse una vita proiettata nell’Estremo Oriente e una giovinezza vissuta nell’Alta Valle del Tevere. Ma percepisce come una risorsa la possibilità che gli è data di carpire il meglio di mondi così lontani: “La quiete della campagna umbra e gli stimoli di una metropoli come Delhi sono i miei due ‘luoghi dell’anima’: uno non può esistere senza l’altro. Ritorno volentieri a Città di Castello a trovare la famiglia, qualche amico e a ricaricarmi. Sapere che esiste al mondo un luogo come Città di Castello dove tutto rimane sempre uguale a se stesso è in un qualche modo un pensiero rassicurante. Inoltre, delle nostre terre mi manca l’amore che la gente ha per la convivialità e una certa genuinità nei rapporti umani. Ma per un giovane che muove i primi passi nella vita adulta, sono convinto, Città di Castello deve essere un luogo di ritorno, mai di permanenza. Al di la delle bellissime colline della nostra valle, c’è un mondo in costante cambiamento che va capito e con il quale è giusto confrontarsi”.
 
L’intervista è stata pubblicata nel numero di maggio 2013 de “L’altrapagina”.