La prova di forza di Perugia illuse le autorità pontificie di avere la situazione sotto controllo. Colpisce, nelle loro reazioni alle manifestazioni di italianità e di insofferenza del dispotismo statale da parte di strati sempre più ampi della popolazione, il continuo affermare che si trattava di episodi circoscritti, fomentati da sparute minoranze di sovversivi in grado di trovare seguito solo tra la bassa plebe ignorante e facilmente manipolabile. Vi era la convinzione, insomma, che la grande maggioranza della gente intendeva restare docilmente sottomessa al governo di Roma. Eppure non mancavano segnali inquietanti. L’arcivescovo di Perugia Gioacchino Pecci era consapevole che si stava diffondendo tra i giovani e nei ceti popolari “un anticlericalismo più politico che filosofico e religioso”; fenomeno che si stava estendendo ben oltre il capoluogo.
A Città di Castello, più delle minacce insurrezionali dei patrioti che si annidavano nel suo gregge, a preoccupare il vescovo Letterio Turchi era il degrado ideale e morale del tempo. In un’omelia data alle stampe in quel 1859, manifestò tutta la sua inquietudine per la crescente diffusione di “pestifere dottrine” che inquinavano la società e la mente degli uomini e puntò il dito contro i malefici effetti collaterali dello sviluppo avvenuto in un secolo così “illuminato”: l’ateismo, il libertinaggio, l’anarchia morale, la libertà religiosa. Più di tutto lo turbava l’azione corrosiva svolta dalle idee democratiche in una società tradizionalmente sana: “[…] il popolo fu dichiarato sovrano, ed al popolo soggetti i Sovrani; era questo uno scioglier le tigri per divorare i loro Custodi, e poi divorarsi fra loro. […] e perché alla fine necessario era un governo, i lumi benefici del nostro secolo si scelsero il più pericoloso, ed instabile il democratico”. Un vescovo assai conservatore, quindi, fedele esecutore delle direttive superiori, ma assorto nei grandi dilemmi etici e spirituali più che nelle gravose questioni politiche che pure incombevano.
Non si comprendeva quindi che, sotto l’apparente calma seguita ai fatti del giugno 1859, il comitato liberale cittadino stava segretamente tessendo la sua trama cospirativa, collegandosi ai patrioti che ormai potevano muoversi liberamente in Toscana. Né si coglieva pienamente il senso di vistose crepe che stavano minando la solidità del regime. Una di esse era il crescente fenomeno della diserzione di truppe pontificie: a Città di Castello disertarono una decina di militi della finanza; a Cortona si rifugiavano di continuo soldati svizzeri che abbandonavano i propri reparti nel Perugino.
Che in città operasse un’organizzazione clandestina efficiente se ne ebbe prova nel gennaio del 1859, quando fu trovato affisso un proclama che invitava “le truppe pontificie alla diserzione e i popoli alla sommossa”. Vi si leggeva: “L’ora estrema del dominio dei preti è suonata. Essa deve confinarsi per ora in Roma protetta da municipali garanzie”; e ancora: “Confidiamo che tutti sarete con noi e con la nazione; che tutti come noi vorrete la libertà e la grandezza d’Italia”.
Altri segnali di pericolo erano evidenti. Il governatore tifernate ordinò ai rappresentanti municipali di San Giustino di esercitare la più stretta vigilanza per reprimere l’introduzione nello Stato di “stampe immorali, rivoluzionarie e irreligiose”; definì addirittura un “torrente impetuoso” e un “veleno micidiale” la circolazione anche nella valle di documenti e pubblicazioni ostili al governo della Santa Sede. E non sfuggiva il rischio che l’entusiasmo dei vicini toscani potesse contagiare la confinante Alta Valle del Tevere pontificia. Si seppe che, nell’estate del 1859, era venuto in città addirittura l’arciprete di Monterchi per predicare “a favore dell’Indipendenza italiana”.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).