Aveva appena 25 anni Pietro Ricci, quando divenne funzionario della Camera dei deputati istituita da Pio IX a Roma nel 1848 e, sotto la Repubblica Romana, preside a Orvieto e poi a Viterbo.
Un suo congiunto, l’avvocato Raffaello Ricci, che nei primi anni del ‘900 aveva uno studio nella capitale, lo descrive come dotato di “ingegno vigoroso e animo ardente”. Tale appare dalle poche testimonianze che abbiamo di lui.
Assai interessanti sono le lettere di cui si ha notizia, due trascritte in parte dallo stesso Raffaello Ricci, una rinvenuta in copia originale nell’Archivio Storico Comunale di Città di Castello. Infatti la corrispondenza che il Ricci aveva con Mazzini e con altri cospiratori dapprima fu affidata allo zio (nonno dell’avvocato Raffaello) “cui non parve luogo più sicuro, per nasconderla, che una sepoltura, nella cappella a destra, accanto alla porta della sagrestia, nella piccola chiesa di San Sebastiano”. Era infatti depositario della Confraternita di quella chiesa. Quando dovette rinunciare alla carica per ragioni di salute, “per non lasciare responsabilità alla famiglia, diede alle fiamme tutto l’incarto, nel quale numerose erano le lettere di Mazzini”.
Raffaello conservava comunque due lettere del 1848-49. Il 4 febbraio 1848, secondo la testimonianza, Pietro scrisse da Roma allo zio, raccontando le feste solenni che venivano fatte per la “rigenerazione” del Regno delle Due Sicilie (il 1° febbraio era stata promulgata la Costituzione da Ferdinando II):
“Ieri mattina fin da mezzogiorno il Corso era vestito a festa, e gli addobbi brillavano dei bellissimi colori d’Italia. […] Ecco ribenedetta la bandiera d’Italia. Roma ne ha sentito tutto l’effetto magico, e balzò di tutti il core del santo amore di nazionalità indipendente e libera. […] Debole come sono per le febbri finora sofferte, ho voluto gustare tutto quel paradiso di gioia italiana, e mi sentiva rinvigorire del corpo, sublimare dell’intelletto, imparando in quel mentre che se la vita dell’uomo ha gioie, le più pure, le più sante, le più inebrianti sono quelle, che si chiamano patriottiche”. Quanto al clero di Roma egli afferma: “è incancrenito dello oscurantismo; spero che vi muoia da tutti esecrato”.
La lettera autografa riemersa ora dagli archivi è diretta invece ad Andrea Lignani di Città di Castello e porta la data del 27 giugno 1848. In essa Pietro Ricci dimostra tutto il suo entusiasmo giovanile per il Parlamento che si era da poco insediato, ed esprime le più acerbe critiche nei confronti dei volontari che avevano abbandonato il fronte e degli oscurantisti. Ecco alcuni passi:
“Viva l’Italia! […] Le nostre Camere procedono trionfalmente, ed io puoi ben credere che non lascio una seduta. Spero che otterremo assai. La vita della Libertà trionfa… […].So che molti de’ nostri, che partirono, sono tornati. Date loro 25 calci nel culo, 50 schiaffi, 80 tratti di corda e poi impiccateli, che così ve ne saprà grado la Società liberata da tanti vili. Onore alla memoria del bravo Luigi Castori, che ha saputo combattere e morire da forte! Qui si vanno spargendo mille fole – che la pace cioè deve pur conchiudersi. Dio voglia che non sia vero, perché i patti sarebbero vituperevoli per noi. Si parla d’una calata di Francesi […] in una parola non si raccapezza più niente. Tante sono le ciarle, le novelle, che ti ronzano agli orecchi, e finiscono collo stancarti. […] Il partito Oscurantista (che Dio sempre fulmini nella sua infinita misericordia!) non lascia di far di tutto per attraversare il nostro civile progresso. […] Addio mio ottimo amico! Rammentami, e riverisci per me la tua rispettabile famiglia, cui auguro ogni bene. Bacia per me tutte le Donne che vorrai, specialmente le più belline. Abbiti un bacio italiano dal Tuo Ricci”.
Invece la lettera scritta il 16 dicembre 1848, dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi e la fuga del papa a Gaeta, dimostra tutto il suo scoramento. Parla ancora della possibilità di insediarsi della Giunta costituita da Pio IX, ma teme il successo di Luigi Napoleone. Della situazione locale dice: “Qui sono adunati una massa di perturbatori disperati, che tentano sollevare a qualche c… il popolo. Il Governo si regge; ma come finirà non lo so. Ancora non si sa nemmeno se accettino i tre senatori di Roma, Bologna e Ancona a far parte della Giunta di Stato, che dovrebbe far le veci del sovrano. È una vera Babilonia, e le casse sono vuote… Iddio ci salvi!!”.
Ricci ricoprì la carica di Preside di Orvieto tra il gennaio e l’aprile del 1849. Riceviamo da Luca Montecchi – autore del volume La rivoluzione in provincia. Società, politica e istruzione a Orvieto dallo Stato Pontificio alla Repubblica Romana del 1849, (Morlacchi Perugia 2011) – alcune sintetiche considerazioni su Ricci: “La memoria lasciata ad Orvieto fu quella di un giovane di ardenti idee patriottiche, che cercò di favorire il rinnovamento politico piazzando sui punti chiave dell’amministrazione, della Guardia Civica e dei Carabinieri persone di fede liberale. Fu artefice dell’arresto del vescovo Giuseppe Maria Vespignani, avvenuto la notte del 12 marzo 1849 perchè si era opposto alla redazione degli inventari dei beni dei ‘Luoghi Pii’ e all’estrazione dei depositi dal Monte di Pietà e in precedenza aveva ostacolato le votazioni per l’Assemblea Costituente”.
Ricci fu poi trasferito dal Triumvirato a Viterbo. “La notizia del suo spostamento – afferma ancora Montecchi – produsse emozioni diverse: il clero orvietano, con cui i rapporti si erano definitivamente guastati, accolse con un sospiro di sollievo la notizia. Protestò invece la Municipalità di Orvieto, che l’11 aprile chiese ai Triumviri di confermare Ricci al suo posto”.
Il crollo della Repubblica Romana costrinse Ricci alla fuga, a un’avventurosa latitanza tra la Maremma e l’Orvietano, e quindi all’esilio a Genova, dove morì in povertà.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Antonella Lignani nel volume Alvaro Tacchini – Antonella Lignani,“Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).