A suffragare il clima repressivo a scapito del liberalismo nelle sue varie manifestazioni giunse il 15 agosto 1832 l’enciclica “Mirari vos” di papa Gregorio XVI. Condannò la “pessima, né mai abbastanza esecrata ed aborrita ‘libertà della stampa’”, il “propagarsi certe dottrine tendenti a far crollare la fedeltà e la sommissione dovuta ai Principi”, i “voti di coloro che vorrebbero vedere separata la Chiesa dal Regno” e la libertà di coscienza, “errore velenosissimo, a cui apre il sentiero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato”. Quanto alle sollecitazioni a riformare e rigenerare la Chiesa, il papa giudicò “oltremodo ingiurioso” il semplice fatto “che la si potesse ritenere soggetta a difetto, o ad oscuramento o ad altri inconvenienti di simil genere”.
Per ridurre all’impotenza i liberali non si esitò a ricorrere a strumenti brutali. Nelle quattro Legazioni pontificie fu istituita una milizia volontaria armata: i “Centurioni”. Per entrarvi a far parte bastava l’autorizzazione dell’ufficiale locale dei gendarmi. Nel vigilare contro le mene degli oppositori, i “Centurioni” non di rado fecero ricorso a violenza inconsulta, malmenando i sospetti e persino strappando loro i peli dei baffi e del pizzetto. Abusi che furono segnalati da alcuni funzionari governativi, preoccupati per l’incauto arruolamento nella milizia di uomini poco raccomandabili, disposti alla cieca violenza.
Per quanto imbavagliati dalla stretta repressiva, gli oppositori tifernati riuscirono in qualche occasione a rialzare il capo. Quanto successe nel 1834 prova che, nel caso delle persone di maggior cultura, proprio il loro associarsi nell’Accademia dei Liberi offriva il contesto più opportuno per manifestare e diffondere le idee liberali e nazionali. Nel novembre di quell’anno l’Inquisitore del Santo Officio di Perugia vietò la stampa del programma della manifestazione poetica per la distribuzione dei premi scolastici perché gli accademici tifernati si rifiutarono di far visionare preventivamente i loro testi.
Un altro episodio di quei giorni vide protagonista Giuseppe Ricci. I documenti di parte pontifica lo tratteggiavano come personaggio “noto pel suo genio liberale e sedizioso” e lo accusavano di “insolente contegno contro il Governo e suoi ministri”, verso i cui atti si ergeva ad “audace ed ingiusto censore”. Ricci fu ritenuto l’autore anonimo di componimenti poetici inammissibili recitati nel teatro di Città di Castello in occasione di un’accademia letteraria e fu costretto a una perizia calligrafica per averne la certezza. Benché la perizia non fosse “prova bastante” per ritenerlo autore dei versi, la polizia suggerì di impartirgli una lezione punendolo con la detenzione domiciliare “per qualche tempo”. Il delegato apostolico di Perugia invece gli aggravò la pena, da carcere domiciliare a carcere formale, “per la gravantissima circostanza […] ch’egli si fe’ lecito la sera del 3 di somministrare in una nuova Accademia di poesia sull’argomento della Morte de’ Maccabei, il malizioso ed imprudente intercalare: cento stragi e cento morti / siamo pronti a sostenere”.
Di quanto la cultura e i suoi canali fossero in grado di diffondere le idee rivoluzionarie era ben consapevole papa Gregorio XVI, che nella “Mirari vos” aveva affermato: “Le Accademie e le Scuole echeggiano orribilmente di mostruose novità di opinioni, con le quali non più segretamente e per vie sotterranee si attacca la Fede cattolica, ma scopertamente e sotto gli occhi di tutti le si muove un’orribile e nefanda guerra”.
Anche l’Accademia dei Liberi di Città di Castello finì dunque con il veder sospesa la sua attività. Solo nel 1841 le venne concesso di riattivare l’associazione, con la nuova denominazione di Accademia Floridana, ma solo temporaneamente e sotto severo scrutinio. Infatti l’anno dopo la Sacra Congregazione degli Studi sollecitò l’espulsione dall’Accademia di alcuni intellettuali sospetti. Il vescovo Muzi affermò che l’associazione, “abusando” della sua condiscendenza, aveva “aggregato al suo albo soggetti, che meritavano di essere affatto rigettati, perché di massime e di costumi corrotti”.
La “Mirari vos” di Gregorio XVI indicò anche le scuole come focolai d’infezione. A Città di Castello furono presi di mira i sacerdoti Domenico Roti e GioBatta Rigucci. Quando la Sacra Congregazione degli Studi chiese informazioni su Roti, il vescovo dovette riconoscere che era considerato “alquanto proclive all’adottare le idee di liberalismo, massime nell’accompagnarsi a persone non poco pregiudicate per l’erronee lor massime”. Roti perse così l’incarico di insegnante di matematica.
Assai circostanziati e pesanti i rilievi mossi da Roma a Rigucci, che insegnava logica, metafisica ed etica: “[…] le dottrine ch’egli si fa lecito d’insegnare sui diritti dell’uomo, sulla cognizione del bene, e del male, sulla origine della Suprema podestà sono al certo malsane, ed assai cedimenti a fomentare nell’animo dei giovani lo spirito purtroppo dominante di dispregio per le massime di costume, e d’insurrezione contro il legittimo potere”. Le autorità romane ordinarono di ammonire Rigucci. Allora ventottenne, il sacerdote stava diventando una figura di spicco a Città di Castello. Benché di origine contadina, acquisì grande cultura e vasto prestigio come docente; nel 1845 avrebbe promosso la Società di Mutua Cristiana Beneficenza, la prima associazione di mutuo soccorso cittadina.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).