Nel 1912 il Carnevale iniziò il 17 gennaio. Con le truppe italiane che combattevano in Libia, si levò qualche voce per evitare inopportuni divertimenti. Scrisse un tale, firmandosi Gib:“Chi si accorgerà quest’anno di trovarsi in un periodo di vita eccezionale e di esuberante festività? […] Quest’anno nessuno si rianimerà al sorriso carnevalesco, sol che volga il pensiero ai centomila fratelli esposti alle insidie e ai pericoli della guerra […] In tempi eccezionali, come quello che attraversiamo al presente, le vecchie consuetudini cadono per cedere il posto a più serie azioni e a più doversi raccoglimenti”. In “Voce di Popolo”, il contadino Antonio Fiordelli propose che la gioventù cattolica si astenesse da ogni festa: “La vera fratellanza vuole che non esultiamo mentre i fratelli soffrono. E poi, con che coraggio noi dovremmo divertirci mentre sappiamo che tanti genitori piangono che hanno perduto i loro cari in guerra?”
Invece il carnevale impazzò, come sempre. Ebbe i suoi momenti topici nei veglioni dei rioni Centro e Mattonata, nelle feste domenicali al Circolo Tifernate, nei veglioni “rossi” dei socialisti e nei Festival popolari tenuti sotto le logge di Palazzo Bufalini. Vi fu pure, a beneficio dell’orfanotrofio maschile, un veglione di gala al Teatro Bonazzi; in genere si teneva al Teatro degli Illuminati, che non era allora in condizioni da ospitare eventi del genere.
Al riuscitissimo Veglione Rosso intervennero “numerose e gentili signore e signorine”. Si legge ne “La Rivendicazione”: “Nelle nostre feste non v’è distinzione alcuna fra chi è favorita dalla fortuna, e chi è costretta a guadagnarsi col lavoro che nobilita il pane quotidiano. Ed è per questo che le nostre fanciulle vi accorrono volentieri”. Ballarono fino alle 5 della domenica mattina. L’orchestra suonò gratuitamente.
I Festival sotto le logge ebbero grande successo. A nulla valsero le invettive contro il ballo del vescovo Liviero. Affermarono gli organizzatori: “Se dobbiamo dirlo francamente, i suoi strali contro il pubblico ballo han fatto sì che il popolo, e più specialmente le ragazze, dessero sfogo con più intensità ai loro istinti ballerecci”. I Festival dettero un utile netto di L. 1.005, devolute per l’orfanotrofio maschile, per gli Ospizi Marini e per il fondo cronici della Società Operaia.
“Ti par proprio questo un popolo in guerra?”, ebbero a lamentarsi i moralisti. E una giovane cattolica: “Questa la città civile che in questa circostanza di lutto generale balla tutte le domeniche? Sono queste persone che amano la Patria? […] Smemorata gente! Fareste meglio, invece di ballare tutte le domeniche, spensieratamente, radunare i soldi che sprecate nelle toilettes e mandarli in dono ai nostri eroi che combattono”.