La presidenza di Baldicchi (1957-1965) attraversò un periodo nel quale presero chiara forma grandi cambiamenti economici e sociali. Per quanto l’agricoltura restasse un baluardo dell’economia altotiberina, sorretto soprattutto dai cespiti di entrata assicurati dal tabacco, era attraversata da una profonda crisi per la sua struttura antiquata, per i limiti intrinseci alla mezzadria, per la sovrappopolazione delle campagne e per le precarie prospettive offerte ai contadini.
L’abbandono delle campagne cominciò negli anni ’50, quando l’industrializzazione non aveva ancora assunto quella forma diffusa e articolata che caratterizzò la valle dal decennio successivo. Le tipografie mantennero sostanzialmente le loro posizioni. Una significativa crescita ebbe l’industria per la raccolta e prima lavorazione del tabacco. Rilevante anche lo sviluppo di stabilimenti per la costruzione di macchine agricole, specie la “Nardi” e, a Città di Castello, la SOGEMA; altre officine conservavano una dimensione modesta. Per il resto, poche falegnamerie di spicco, dei faticosi tentativi di avviare l’industria ceramica e tessile, due scatolifici, due sole fornaci con un numero cospicuo di addetti e un artigianato ancora frazionato e multiforme che sopravviveva stentatamente: alla fine degli anni ’50, si censivano 161 artigiani nel centro storico di Città di Castello, 30 fuori le mura e 77 nelle frazioni. Su di un totale di 268 botteghe, 61 erano di fabbri e 50 di falegnami.
In tale contesto, le imprese della valle non erano in grado di offrire opportunità di lavoro a tutti coloro che lasciavano l’agricoltura e i rami in crisi dell’artigianato. Come negli anni tra ‘800 e ‘900, per molti lavoratori non restò che emigrare. La Scuola Operaia fece del suo meglio affinché chi si decideva a lasciare l’Italia potesse trovare una buona occupazione nei Paesi ospitanti. Nel 1957 promosse un corso rapido per venti tornitori e due saldatori pronti ad emigrare in Francia. Poi ospitò dei capi-personale di ditte svizzere giunti per assumere mano d’opera, intrattenne rapporti con il Comitato Intergovernativo Migrazioni Europee e si adeguò alle norme prescritte dal Bureau International du Travail per la qualificazione professionale dei lavoratori. Così avrebbe potuto vantare: “Oggi il diploma di frequenza della Scuola Bufalini è considerato titolo di preferenza all’assunzione dalle industrie della Francia, Svizzera, Germania, Inghilterra e persino del Sud America e Australia”.
La scelta di aprire una zona industriale a Città di Castello, all’inizio degli anni ’60, e il suo rapido sviluppo in virtù delle agevolazioni creditizie e fiscali, del sostegno degli enti locali e dello spirito imprenditoriale di un’intera generazione di piccoli industriali e di artigiani, fece in poco tempo il miracolo di mutare radicalmente il volto e le prospettive del territorio. Tale crescita doveva essere assolutamente alimentata da una formazione professionale all’altezza delle nuove sfide. Si legge in un giornale dell’epoca: “Si espande l’industrializzazione. Le fabbriche, anche piccole, vanno introducendo macchinari delicati e complessi, e perfino la bottega artigiana tende ad eliminare una parte del lavoro manuale fino a prendere l’aspetto della piccola azienda industriale. Le grandi industrie, poi, da tempo hanno ridotto al minimo la manovalanza non qualificata”.