In effetti l’azienda aveva conosciuto un considerevole sviluppo. I 49 dipendenti del 1884 erano diventati un centinaio nel 1889, molti dei quali donne impiegate come compositrici a mano, mettifoglio sulle macchine da stampa e operaie nel reparto legatoria. Lo Stabilimento s’era dotato di macchinario all’altezza dei tempi, di una motrice a vapore e di una propria fonderia di caratteri. Inoltre Lapi aveva chiamato a sè valenti tecnici forestieri, che avrebbero perfezionato nell’arte un’intera generazione di tipografi.
L’imprevedibile sviluppo da piccolo laboratorio a industria, dalle esigue commesse locali a un’attività editoriale di livello nazionale era avvenuto in anni in cui Città di Castello subiva ancora una pesante emarginazione geografica. Fino al 1886 – quando Lapi era già un editore in ascesa – mancava una ferrovia che rendesse agevole l’approvvigionamento di materie prime, la spedizione degli stampati e i contatti con i più importanti ambienti culturali: solo una diligenza collegava la città ad Arezzo e a Perugia. Poi la Ferrovia Appennino Centrale – del cui tracciato, emblematicamente, l’ingegner Lapi fu tra i progettatori – attenuò ma non risolse del tutto i problemi dovuti all’isolamento; da Umbertide a Perugia, infatti, si sarebbe dovuto ancora procedere in diligenza fino al 1915.
Era, dunque, quello tifernate, un terreno poco fertile per iniziative industriali. Del resto, proprio nell’ultimo quarto dell’Ottocento cadevano in crisi irreversibile le cappellerie, i pochi opifici di apprezzabile consistenza che la città vantava da qualche decennio. Provocavano tanta decadenza la scarsezza di capitali e l’arretratezza dei sistemi produttivi. Sembrava non potesse esserci altro destino al di fuori dell’agricoltura. Tale scenario esalta ancor più la figura dell’imprenditore Lapi: un coraggioso pioniere, un sognatore – ebbe a scrivere Raffaele De Cesare – stimato “per quelle generose illusioni che nessuno, certo, con la triste realtà, riuscì mai a dissipare o a diminuire”.