Quando la guerra investì l’Alta Valle del Tevere, l’industria tipografica di Città di Castello pagò un prezzo elevato. Dopo il bombardamento del 14 maggio 1944, del salone di lavorazione della “Lapi” non rimasero che macerie. Le altre aziende fortunatamente sopravvissero alle distruzioni e ai saccheggi perpetrati dai tedeschi durante il passaggio del fronte. La ripresa produttiva, però, dopo la paralisi di quelle settimane e i danneggiamenti subiti dalle infrastrutture essenziali, avvenne tra molteplici difficoltà. La ferrovia non esisteva più; fino al 1955 il trasporto delle merci sarebbe avvenuto solo su strada. La ricostruzione della “Lapi” avrebbe dovuto attendere il 1950.
Benché le altre tipografie non mancassero di lavoro, a riprova del solido legame con gli editori, la precarietà delle condizioni finanziarie e l’arretratezza tecnologica ne stavano minacciando la sopravvivenza. Si levarono autorevoli voci affinché fosse reso possibile un più facile accesso al credito; la Cassa di Risparmio di Città di Castello continuava però a tenere in maggior conto gli agricoltori – a quell’epoca ancora il pernio dell’economia locale – e considerava rischiosi i prestiti alle industrie. Fu così che abortì il progetto di impiantare in città una cartiera. Convinte della sua utilità, le tipografie si dichiararono disponibili a concorrere alle spese, ma non furono trovati sufficienti finanziamenti.
Alla fine degli anni Quaranta, con la “Lapi” ancora parzialmente distrutta, l’industria tipografica visse dunque un momento assai difficile. In cattive acque e senza una stabile proprietà si trovava la “Leonardo da Vinci”, tanto che le maestranze finirono con il rilevarla, avviando una problematica esperienza di autogestione. Essa si concluse dopo pochi mesi e senza successo, per le divergenze fra operai e dirigenti. In quella circostanza non emersero solo i limiti della classe dei tipografi; essi dimostrarono infatti uno spirito di iniziativa che trovava ulteriori riscontri nella sopravvivenza – tra continue difficoltà, ma senza gravi crisi – della cooperativa “Unione Arti Grafiche”.
Il problema obbiettivo di maggior rilievo per tutte le tipografie di Città di Castello era costituito dal macchinario obsoleto. Il periodico “La Rivendicazione” (1° ottobre 1951) sottolineò le contraddizioni in cui esse versavano: “L’industria locale è rimasta in arretrato nella sua attrezzatura, e non regge più la concorrenza […]. Per quel tanto che si sono aggiornate, le tipografie locali hanno esuberanza di personale, con un gravame eccessivo di spese per mano d’opera, contributi ed accessori; per quel tanto che non si sono aggiornate, lavorano con margini troppo modesti. Bisogna ad ogni costo ammodernare l’attrezzatura e, poiché questo renderebbe più esuberante il personale attuale, allargare la clientela”. Nonostante gli esigui mezzi finanziari a disposizione, le aziende avrebbero comunque tentato di rinnovarsi. Negli anni Cinquanta vi sarebbe stato il progressivo abbandono della composizione a mano a favore di quella meccanica, prima ampliando la dotazione di macchine monotype, poi – nella seconda metà del decennio – adottando le linotype. Continuava però a sussistere ancora un marcato ritardo rispetto alle più recenti innovazioni tecnologiche.