Nel 1908 si consumò la rottura tra Franchetti e il marchese Ugo Patrizi, approdato tra i radicali dopo essere stato in precedenza additato dai democratici come, addirittura, il “paradisiaco amico” del barone. Franchetti si sentì offeso da un articolo di giornale e ne ritenne l’ispiratore proprio Patrizi. Lo incontrò in città e gli dette del “vigliacco”. Lì per lì Patrizi pensò di sfidare a duello il barone. Ma gli amici della Società Radicale lo dissuasero pubblicamente, con vigore, di dare “esecuzione al suo proposito di chiedere una riparazione per le armi per l’insulto subito”. Gli suggerirono invece di ricorrere all’autorità giudiziaria. Patrizi fece così. Franchetti, a sua volta, lo querelò per diffamazione. Le querele sarebbero state ritirate 10 mesi dopo.
I socialisti ironizzarono sul mancato duello tra i due esponenti politici. Franchetti avrebbe dato loro modo di tornare sull’argomento. Infatti, nel giugno del 1909, egli si sarebbe ancora battuto, a Roma, con il segretario del governatore del Benadir, a causa di quelli che “La Rivendicazione” definì “pettegolezzi africani”. In quella circostanza Franchetti fu ferito alla fronte e alla guancia destra.
I socialisti non serbavano alcuna fiducia nelle missioni in Africa del loro avversario politico. Lo soprannominarono “Poldone l’Africano” e così ne sbeffeggiarono i progetti coloniali: “Per l’Eritrea egli in testa ci aveva le patate, per il Benadir e per tutta la Somalia egli ci ha niente meno che le pigne; le pigne le quali serviranno per le pinoccate di prossima consumazione nella stagione invernale”.
Alla fine del 1908, conclusi i suoi viaggi nell’Africa italiana, Franchetti comunicò l’intenzione di non concorrere nelle imminenti elezioni per il rinnovo del Parlamento. La notizia gettò nella costernazione i liberali monarchici tifernati.
I socialisti ritennero che Franchetti ne avesse abbastanza del gruppo di potere locale che si riconosceva in lui. Essi lo definivano “un’accolta camorristica di vipere e di rospi” e imputavano a Franchetti la gran colpa di non aver mai scisso le sue responsabilità dalle loro: “Nella lotta sleale contro noi, – dissero – Franchetti non ebbe mai uno scatto onesto di doverosa protesta contro le male arti dei suoi”.
Un’altra critica dei socialisti a Franchetti merita attenzione. Lo accusarono di essere rimasto “segregato” alla Montesca, circondato solo dai suoi, senza alcun contatto diretto con gli avversari, “una specie di semidio – affermarono – accampato nella villa baronale”. E non nascosero qualche rimpianto: “[…] se il Franchetti avesse rotto questo cerchio, se si fosse curato di conoscere i suoi avversari, molti equivoci fatali si sarebbero eliminati, molte aspre lotte infeconde sarebbero state risparmiate al nostro paese”.
Il settimanale di Franchetti, “L’Alto Tevere”, motivò il suo desiderio di abbandono con la sua “stanchezza della vita politica”. Poi invece Franchetti si lasciò convincere dall’Associazione Liberale-Monarchica a ricandidarsi. Lo fece senza entusiasmo. Scrisse infatti: “Desideravo e desidero uscire dalle lotte politiche […]”.
Estratto, senza note, del saggio Le vicende politiche di Leopoldo Franchetti a Città di Castello, di Alvaro Tacchini, in Leopoldo e Alice Franchetti e il loro tempo, a cura di A. Tacchini e P. Pezzino, Petruzzi Editore, 2002.