Nella primavera del 1946 si svolsero le prime elezioni del dopoguerra. I socialisti vinsero le amministrative di marzo, con una cospicua maggioranza relativa sulla Democrazia Cristiana e sui comunisti. Le elezioni per l’Assemblea Costituente di giugno raggelarono gli entusiasmi: il partito socialista subì una grave emorragia di voti, parzialmente travasatisi nel partito comunista; la sinistra mantenne una solida maggioranza, ma crebbero considerevolmente i consensi verso la D.C.
Nel dibattito successivo all’insuccesso elettorale vi fu chi definì “quietismo borghese” la linea politica propugnata da Pierangeli. Lui replicò che non poteva certo definirsi tale una condotta di operosità quotidiana, di ragionamento sui problemi concreti, di educazione ed elevazione morale, di rigetto del settarismo, del pettegolezzo e del personalismo; e ribadì che un’azione rivoluzionaria proiettata verso il futuro non aveva nulla a che vedere “con l’infantilismo irrequieto dei malcontenti e degli insoddisfatti, con la miopia degli egoismi avidi e implacabili”. E si dichiarò del tutto favorevole all’alleanza con i comunisti: “[…] occorre rimanere a fianco del proletariato con dedizione piena a un ideale superiore; […] occorre rimanere all’Estrema Sinistra per fare da pungolo, per svolgere azione educativa. Da qui la necessità del patto di unità di azione fra socialisti e comunisti.
[…]
Quando, nel gennaio del 1947, si consumò la scissione nel partito socialista, Pierangeli decise di rimanere nel partito di Nenni, sebbene non si fidasse del gruppo dirigente, che rischiava di “liquidare il partito socialista nella sua essenza spirituale, mantenendolo in vita come cellula del partito comunista”. Non volle compromettere quel rapporto di servizio nei confronti della classe lavoratrice che sentiva, da intellettuale, di poter offrire: “Io voglio poter dire parole severe agli operai e contadini, difenderli contro il loro egoismo, contro la loro ignoranza, contro i politicanti in modo da essere ascoltato almeno un poco”. Pierangeli non avrebbe mai nutrito soverchia simpatia verso Saragat e gli scissionisti, ai quali imputava di “veleggiare verso la socialdemocrazia”.
[…]
Dal 5 aprile 1947 Pierangeli iniziò a firmare “La Rivendicazione” come direttore. In quella fase storica mise ancora in guardia contro la ripresa del movimento fascista e le incaute e premature proposte di riconciliazione. Soprattutto insistette affinché il movimento dei lavoratori dimostrasse senso dello Stato, rinunciando a ogni forma di violenza, di demagogia, di “semplicismo infantile” e di intolleranza.
Quanto alla compatibilità tra marxismo e cristianesimo, continuò a replicare alle stoccate di don Pietro Fiordelli. Il sacerdote gli rimproverava l’ostinata fede in una lotta di classe che – riteneva – egli intimamente aborrisse. Pierangeli, invece, ribadì che si poteva essere convinti marxisti e nel contempo riconoscere “l’alta spiritualità del cristianesimo e la moralità della solidarietà predicata dal Vangelo”. Non ebbe difficoltà ad ammettere che restavano fra i socialisti residuati di un anticlericalismo politico che “finiva spesso per sconfinare nell’antireligiosità”. Ma esortò i cattolici a non rimanere prigionieri di un “anticomunismo rabbioso”, che poco serviva alla religione, e a bandire dalla lotta politica ogni inciviltà, per “far vibrare nell’uomo le corde migliori, non quelle peggiori”.
Sunto, senza note, tratto da A. Tacchini, Giulio Pierangeli: l’uomo e il politico, in Giulio Pierangeli. Scritti politici e cronache di guerra, a cura di A. Lignani e A. Tacchini, Istituto di Storia Politica e Sociale Venanzio Gabriotti, Petruzzi Editore, 2003.