In quei mesi così fecondi dal punto di vista dell’elaborazione politica e ideologica, Pierangeli trovò ulteriori stimoli in un progetto editoriale che lo vide protagonista insieme a don Enrico Giovagnoli e a Gustavo Bioli. I tre intellettuali tifernati fondarono la Casa Editrice “Il Solco” nei primi mesi del 1920. Proposero subito opere qualificanti e Pierangeli si impegnò in prima persona, curando l’edizione de Le origini della società borghese di Karl Marx, de La capacità politica delle classi operaie di Pierre Joseph Proudhon – libri di cui fu anche traduttore – e de L’antico regime e la rivoluzione di Alexis de Tocqueville.
Nelle note introduttive alle tre opere, scritte tra il settembre e il dicembre 1920, Pierangeli ebbe modo di ribadire le idee che stava maturando. Di Marx riteneva ancora valida non la dottrina economica – che secondo lui aveva “perduto ogni valore” – ma l’“interpretazione realistica della storia”, il materialismo storico. Affinché questa “intuizione geniale” si mantenesse vitale, bisognava però che gli intellettuali studiassero a fondo la realtà italiana per applicarvi con profitto la critica storica marxista. Ed era loro compito mettere in guardia il movimento operaio dalle degenerazioni che rischiavano di corromperlo: il “politicantismo parlamentare”, le “infiammate orazioni nelle piazze”, “la lusinga agli istinti egoistici delle masse”, gli egoismi di categoria e le tendenze stataliste e urbane. Come insegnava Proudhon, il proletariato doveva sapersi imporre per una sua capacità progettuale, orientata ad affrontare e risolvere i problemi concreti, nel rispetto assoluto della personalità umana, della moralità e dell’idea del diritto e della giustizia. Un approccio pragmatico e riformista, dunque, nell’ambito del quale il movimento dei lavoratori avrebbe dovuto instaurare una proficua alleanza con il ceto medio produttivo, che poteva essere attratto dal “socialismo temperato”, non dall’“estremismo bolscevico”. Però, affinché i ceti sociali subordinassero i loro interessi a quelli collettivi, necessitava un ordinamento politico federalista, che ridesse ai Comuni la sovranità per far fronte ai gravi problemi sociali nel modo migliore e più economico, secondo le esigenze locali. […].
Pierangeli prese inoltre posizione contro “la politica urbana di accentramento”, che ignorava le esigenze rurali e assorbiva continuamente ricchezze dalla campagna “per rovesciarle con la prodigalità del parassita sulle città divoratrici”. Ma spettava alla borghesia rurale assumere maggiori responsabilità sociali, producendo di più e fornendo risposte concrete ai bisogni dei contadini: una intensificazione della produzione, dunque, che presupponeva “pronte e spontanee concessioni di miglioramento nei patti colonici, e soprattutto un più assiduo interessamento dei proprietarii per gli interessi e le aspirazioni dei contadini”.
Sunto, senza note, tratto da A. Tacchini, Giulio Pierangeli: l’uomo e il politico, in Giulio Pierangeli. Scritti politici e cronache di guerra, a cura di A. Lignani e A. Tacchini, Istituto di Storia Politica e Sociale Venanzio Gabriotti, Petruzzi Editore, 2003.