[…] Nel 1924 il susseguirsi di episodi di violenza di matrice fascista e l’incombere della dittatura suscitarono in Pierangeli un vivo allarme: “L’incubo della forza – che è il presidio più certo del regime – grava come una cappa di piombo su tutto e su tutti […]”. Cominciò a parlare di “lotta per la libertà”: “L’Italia ha bisogna soprattutto di pace di disciplina interna; la pace e la disciplina coattivamente imposte da un partito prevalente, accumulano odii e rancori […]”. Espresse la preoccupazione che il fascismo, perdendo sempre più il legame con la borghesia agricola e con i ceti produttivi, avrebbe provocato il formarsi di una “nuova burocrazia”. Inoltre gli parve già evidente l’abilità del fascismo di tenere assieme le divergenti spinte rivoluzionarie e reazionarie che si agitavano al suo interno attraverso il “feticismo verso Mussolini”, un “mussolinismo” tutta esteriorità.
La minaccia della dittatura non lo distolse però dalla battaglia che lo vedeva impegnato ormai da cinque anni. Si rendeva conto di essere un “eretico anche per molti amici” e di assumere posizioni e di usare un linguaggio che, benché “antitetici”, potevano apparire uguali a quelli del fascismo. In effetti i suoi articoli per “La critica politica” del 1924 e 1925 contengono espressioni forti: “la democrazia elettorale è un cadavere da seppellire”; bisogna tendere verso un nuovo parlamento “libero dal dominio dei partiti e dei professionisti della politica”; “il Parlamento è morto” e “la mia generazione non può rimpiangere una istituzione, che nell’ultimo ventennio ha dato continuo spettacolo di miseria morale, di incapacità, di servilismo”; “il cittadino elettore è gregge alla mercé dei maneggioni”; si deve sgombrare il campo dalle ideologie, per tornare ai problemi concreti, perché “i partiti con tutte le loro illusioni sono la rovina d’Italia”; “l’Italia dei politicanti e degli affaristi […] pretende di dettare legge all’altra Italia” dei ceti laboriosi; basta con lo scandalo di chi fa il reduce di guerra per mestiere, “il combattente degno di tutto rispetto è colui che finita la guerra è tornato al suo campo, al suo negozio”. Si trattava di un accorato grido contro tutti “i retori, i demagoghi, i profittatori della politica, siano essi annidati al Viminale o si appartino sdegnosi sull’Aventino delle opposizioni, per prepararsi il trampolino per la futura scalata al potere”.
Dunque anche l’estrema protesta contro il nascente regime da parte dei partiti democratici suscitò dei dubbi in Pierangeli. Non ne contestava la lotta per la libertà, quanto l’incapacità di formulare proposte alternative di governo, di proporre concrete soluzioni ai problemi più impellenti. In uno dei suoi ultimi articoli scrisse: “I partiti politici antifascisti non si sono accorti che stare sull’Aventino non basta più, che è necessario passare il Rubicone, cioè presentare programmi concreti per vincere il regime che vogliono avversare”.
Sunto, senza note, tratto da A. Tacchini, Giulio Pierangeli: l’uomo e il politico, in Giulio Pierangeli. Scritti politici e cronache di guerra, a cura di A. Lignani e A. Tacchini, Istituto di Storia Politica e Sociale Venanzio Gabriotti, Petruzzi Editore, 2003.