Nel 1925 il cerchio della repressione fascista cominciò a stringersi anche attorno a Pierangeli. Da due anni era in atto una energica campagna antimassonica. In tutta la provincia le camicie nere fecero ricorso a intimidazioni e azioni squadriste per terrorizzare e ridurre politicamente all’impotenza influenti personalità che, nella segretezza delle logge massoniche, potevano tramare contro il regime. Pierangeli era rientrato nella massoneria nel dopoguerra, probabilmente nel 1922, aggregandosi alla Loggia XI Settembre di Città di Castello. Per la considerazione in cui era tenuto a livello cittadino, non ebbe noie fino al novembre del 1925, quando fu previsto per legge il licenziamento di dipendenti pubblici affiliati ad associazioni che operassero “in modo clandestino od occulto”. Alle prime pressioni per rimuoverlo dal posto di segretario della Congregazione di Carità s’era addirittura opposto il segretario del Fascio tifernate, Filippo Niccolini. Ma il clima peggiorò nei mesi successivi e l’attentato al Duce del 1926 fece precipitare la situazione. Il 1° novembre Pierangeli dovette dimettersi e allontanarsi per qualche giorno da Città di Castello. […]
A nulla valsero le referenze di Pierangeli, né il suo più recente passato politico. La stessa prefettura, appena due mesi prima, ne aveva proposto la “radiazione dallo schedario politico”, perché per anni si era dimostrato “in ogni occasione devoto alle istituzioni, sì da ingenerare la persuasione che le sue idee si [fossero] del tutto mutate”. Fu un momento critico nella sua vita. Dalla primavera del 1925 soffriva di seri disturbi alla tiroide e non scriveva più per “La critica politica”, poi chiusa per decreto prefettizio. Con la salute minata, gli vennero quindi a mancare contemporaneamente sia quella vivificante finestra sulle vicende nazionali, sia il posto di lavoro, per il quale aveva rinunciato alla nomina a segretario capo della Congregazione di Carità di Perugia.
Da allora prese a dedicarsi a tempo pieno all’attività legale, nello studio di Evaristo Bufalini e del figlio Giacomo. Non ebbe solo una clientela pubblica; per il prestigio di cui godeva, quasi nessun ente volle fare a meno della sua consulenza. Nel 1941 il segretario del partito fascista di Città di Castello, Fausto Desideri, sarebbe stato costretto a lamentarsi dei troppi incarichi pubblici assegnati a Pierangeli: si servivano allora di lui i Comuni e gli enti di assistenza di Città di Castello e Sangiustino, gli Ospedali Uniti, l’Opera Pia Muzi Betti, la Scuola di Agricoltura e la Scuola Operaia, l’Opera Pia Regina Margherita, l’Asilo Cavour, i Lasciti Cassarotti e Segapeli, la Cassa di Risparmio, l’Esattoria Consorziale, il Monte dei Paschi di Siena, la Fattoria Autonoma Tabacchi e il Consorzio Tabacchicoltori di San Giustino.
Però, fedele alle sue convinzioni, non volle essere un “parassita” della pubblica amministrazione. Interpretò il ruolo di legale e di consigliere soprattutto con l’intento di promuovere lo sviluppo economico e culturale, delineare strategie lungimiranti e liberare gli enti dai lacci burocratici. […]
Sunto, senza note, tratto da A. Tacchini, Giulio Pierangeli: l’uomo e il politico, in Giulio Pierangeli. Scritti politici e cronache di guerra, a cura di A. Lignani e A. Tacchini, Istituto di Storia Politica e Sociale Venanzio Gabriotti, Petruzzi Editore, 2003.