Ma fu soprattutto come uomo di fiducia della Fattoria Autonoma Tabacchi che Giulio Pierangeli poté incidere molto concretamente a favore dello sviluppo economico di Città di Castello e dell’intera valle. Iniziò a partecipare attivamente alla vita del consorzio nel 1923, rappresentando nell’assemblea dei soci gli Ospedali Uniti e la Scuola Operaia “Bufalini”. L’anno successivo divenne segretario dell’assemblea stessa e nel 1939 anche della Commissione dei Nove, organismo esecutivo che dieci anni dopo si sarebbe trasformato in consiglio di amministrazione. Già nel 1928, inoltre, ricopriva l’incarico di legale dell’azienda. Come strettissimo collaboratore dei procuratori Sergio Rossi e Giulio Della Porta e del direttore Dino Garinei, egli fu quindi promotore e partecipe di quello straordinario sviluppo che contrassegnò la storia della F.A.T. Il consorzio, che nel 1918 contava 37 soci, alla fine degli anni Trenta aggregava 377 aziende agrarie, per un totale di 1.112 unità poderali; quanto agli addetti impiegati nello stabilimento per la cernita e l’imbottamento del tabacco, i 194 dipendenti del 1923 diventarono 457 nel 1936, numero destinato a crescere ancora di molto.
La peculiare intesa che legava i dirigenti della F.A.T. li indusse nel 1932 ad una scelta che avrebbe poi creato non pochi problemi a Pierangeli: si iscrissero infatti al partito fascista, in modo tale che le sorti di una realtà economica così importante per la città non subissero condizionamenti negativi. […]
Delle reali opinioni politiche di Pierangeli e dei suoi amici della Fattoria Autonoma Tabacchi i fascisti erano ben consapevoli. Si legge infatti in un rapporto anonimo inviato alla prefettura nel 1935: “È arcinoto che in città tutti i dirigenti di detta azienda, anche se iscritti al partito dal 1932, sono antifascisti e non vogliono sentir parlare di sindacato”.
Tuttavia un articolo di Pierangeli ne “L’Alta Valle del Tevere” nel 1936 rivela come anche fini intellettuali come lui subissero in quella circostanza storica il fascino delle mire imperiali del fascismo e rimanessero coinvolti nel clima di acceso nazionalismo che rafforzò il consenso verso il regime. Dopo aver sottolineato che la guerra in Africa Orientale, affrontata per conquistare nuove terre (“un posto al sole”), era “sentita dai rurali come la loro guerra”, Pierangeli si lasciò andare a queste valutazioni: “La maschia audacia della impresa d’oltremare, ponderata e metodica, risponde al genio della stirpe, trova consenziente chi parte e chi resta. […] Alla stretta soffocatrice che alla vitalità italiana oppongono le nazioni più ricche si può reagire solo colle armi”. Di lì a qualche anno non si sarebbe più riconosciuto né in tali considerazioni, né in uno stile così retorico; ma alcuni, a Città di Castello, si sarebbero ricordati di quest’articolo.
Sunto, senza note, tratto da A. Tacchini, Giulio Pierangeli: l’uomo e il politico, in Giulio Pierangeli. Scritti politici e cronache di guerra, a cura di A. Lignani e A. Tacchini, Istituto di Storia Politica e Sociale Venanzio Gabriotti, Petruzzi Editore, 2003.