Su Arcaleni, Maestro di Cappella in Duomo, ricadeva la responsabilità dell’accompagnamento musicale e corale delle funzioni liturgiche. Il gruppo di cantori che lo affiancava mancava però di una precisa fisionomia organizzativa; inoltre, era soprattutto il virtuosismo del “maestrino” all’organo a monopolizzare l’attenzione dei fedeli. E non si trattava sempre e soltanto di musica sacra. Dopo il sodalizio con Giovagnoli e le attenzioni verso le tendenze riformatrici, le sue esecuzioni tornarono ad essere palpabilmente influenzate dallo stile musicale ottocentesco e da forti suggestioni operistiche. Ciò destò qualche perplessità in mons. Carlo Liviero, un vescovo assai ligio nell’uniformarsi alle indicazioni provenienti dalla Santa Sede, ormai decisa a realizzare pienamente la riforma della musica liturgica. Sembrava che Arcaleni, per quanto di indiscutibile talento, godesse di eccessiva autonomia; e venivano tollerate con crescente impazienza certe sue “licenze” comportamentali: l’arrabbiarsi con i coristi per la cattiva esecuzione, al punto di stracciare gli spartiti e gettarli dal balconcino dell’organo sul sagrato del Duomo; o, durante una predica troppo lunga, lasciar scorrere la mano sulla tastiera per qualche fugace e nervosa nota che “ricordasse” al sacerdote di giungere alla conclusione.
Non che i concittadini facessero molto caso a certe sue bizzarrie. A un personaggio così noto e stimato si perdonava di tutto. Inoltre il suo nervosimo – se non dovuto, certo accresciuto dal frenetico susseguirsi dei molteplici impegni quotidiani – stava diventando proverbiale e fonte di una ricca anedottica. Alla sua “temibilissima bacchetta” e alle sue sfuriate si abituarono i coristi e gli orchestrali che l’ebbero come direttore. Durante le prove di un’operetta, gli capitò anche di abbandonare sdegnosamente il podio di direzione: siccome coriste e artisti sembravano più intenti a scambiarsi sguardi d’amore che a perfezionare l’esecuzione, se ne andò gridando: “Non faccio il ruffiano a nessuno!” Talvolta gli sfuggiva qualche parola di troppo. A tal proposito gli habituè del teatro, dov’era di casa, coniarono una rima assai espressiva (n.d.a: il Loreti a cui ci si riferisce era l’incaricato del sistema di illuminazione): “Se a Loreti il tic prendesse / e in teatro la luce spegnesse, / niun s’accori, / niun s’appeni, / ci sono i ‘moccoli’ del maestro Arcaleni”.
“Moccoli” e licenze di vario genere non potevano certo piacere a un tipo come Liviero. Ma il vescovo – uomo di popolo e per di più di tempra sanguigna – sapeva capire e perdonare. Ciò che a lui più interessava era avere a disposizione un coro in grado di esprimersi secondo le indicazioni stilistiche pontificie. E da questo punto di vista Arcaleni sembrava non dargli più il necessario affidamento. Inviò quindi il giovane don Rolando Magnani a Roma, ad istruirsi alla Scuola Superiore di Musica Sacra. Due anni dopo, nel 1931, sorgeva la Schola Cantorum “Anton Maria Abbatini” della Basilica Cattedrale, posta sotto la direzione dello stesso Magnani.
Roberto ci rimase male; lì per lì percepì il tutto come una sua emarginazione. Ma seppe reagire con intelligenza, accettando di adeguarsi allo stile richiesto. Don Rolando gli offrì l’opportunità di una collaborazione e Liviero accettò di ricoinvolgerlo. Da allora, oltre a mantenere l’incarico di organista, avrebbe affiancato il giovane sacerdote come condirettore del nuovo coro. Nella Schola Cantorum si ritrovarono alcuni dei componenti del precedente gruppo corale del Duomo: il basso Giuseppe Beni, i tenori Mario Bistoni ed Elia Zucchetti ed il baritono Giuseppe Capriani: costoro, insieme al basso Torquato De Rosi ed ai tenori Mario Benni, Francesco Cesarotti, Ugo ed Emilio Marinelli, Antonio Rossi e Bruno Fortuni avrebbero costituito il solido nucleo centrale della formazione per lunghi anni. Attorno ad essi uno stuolo di “voci bianche”, giovinetti per lo più del quartiere San Giacomo, parrocchia di don Rolando e don Giuseppe Pierangeli, che dovevano supplire alla mancanza di voci femminili.
La Schola Cantorum “Abbatini” visse negli anni Trenta il periodo forse più intenso di soddisfazioni liturgiche ed artistiche, per la compattezza del nucleo di fondatori, la qualità delle voci e l’entusiasmo che contraddistingue ogni nuova esperienza. Essendo l’unico coro religioso di prestigio in un ampio raggio territoriale, fu sovente chiamata ad esibirsi anche fuori dell’ambito cittadino.
L’estratto manca delle note presenti nel testo Roberto Arcaleni “il Maestrino” (Scuola Grafica dell’IPSIA, 1995).