Erano la musica e l’attività filodrammatica, pertanto, ad apparire ai ceti popolari come lo strumento di più facile appropriazione per la propria emancipazione culturale. E se un piccolo borgo di provincia ancora povero ed emarginato come Città di Castello s’infiammava per la lirica, non poteva non pulsare per l’Opera il cuore di Roberto Arcaleni, anch’egli di una famiglia operaia e artigiana con la musica nel sangue. Le suggestioni della lirica ottocentesca avrebbero lasciato nel suo stile una traccia indelebile.
Nell’aprile del 1905, le tre serate dedicate a “Il Barbiere di Siviglia”, al Teatro degli Illuminati, destarono una eco particolare, accentuata dal considerevole flusso di pubblico forestiero. Quindi, ad agosto, giunse la “Manon” di Puccini. Come allora soleva, per diminuire i costi delle rappresentazioni, la compagnia in tournée richiese voci locali per integrare il coro. Quell’esperienza fu così esaltante che una ventina di coristi tifernati, conclusi gli spettacoli, decise di costituire la Corale “Giuseppe Verdi” per tener viva in città l’arte del canto. Egemonizzavano il comitato direttivo autorevoli personaggi dei partiti popolari, quasi tutti artigiani. Alla guida artistica del gruppo chiamarono il “maestro” Roberto Arcaleni. La nuova associazione faticò a decollare; le crearono difficoltà sia per l’utilizzazione del pianoforte di proprietà comunale, che pur giaceva “inutile e polveroso”, sia per renderle disponibili locali e qualche contributo municipale.
Nelle elezioni del 1905, infatti, le redini dell’amministrazione comunale furono afferrate saldamente dai liberal-monarchici guidati dall’avv. Francesco Bruni, un battagliero conservatore che non fece mai mistero della sua ostilità verso gli ambienti dove si asserragliavano gli accaniti oppositori, socialisti e repubblicani; e tale era il caso delle associazioni culturali locali, specie in campo musicale. L’accesso a finanziamenti e servizi comunali divenne quindi più arduo. Non che gli avversari facessero molto per rendersi simpatici al primo cittadino! Allora solevano canticchiare la canzoncina “Cinque franchi”, che alludeva pesantemente alla tresca del sindaco con una sua amante di nome Olimpia. I musicisti erano in prima fila nel provocarlo, tanto che Bruni finì con il dichiarare guerra alla Banda. Sembra che anche su Roberto Arcaleni cadessero gli strali del sindaco: identificò in lui l’autore della musica dei “Cinque franchi” e gli rifiutò risolutamente un contributo comunale per completare gli studi.
I coristi della “Giuseppe Verdi” e il loro “maestrino” ebbero comunque modo di togliersi un’altra grande soddisfazione nell’estate del 1906, quando le rappresentazioni della “Tosca” vennero definite uno dei migliori spettacoli in città a memoria d’uomo: teatro per più sere affollatissimo, pubblico sin da Arezzo e da Gubbio, richieste entusiastiche di bis per un cast di cantanti lirici di prim’ordine. Orgogliosi per quel trionfo potevano ben sentirsi anche i numerosi musicisti tifernati invitati ad integrare l’orchestra ed Arcaleni, che aveva raccolto e diretto il coro. Da allora, gli impresari delle opere liriche a Città di Castello avrebbero sempre fatto ricorso a lui per un compito talmente delicato: solo lui conosceva le potenzialità delle voci di quei falegnami, tipografi, ferrovieri, commercianti, operai che a tarda sera, lasciando alle spalle una lunga giornata di lavoro, si precipitavano alle prove per non far mancare il loro contributo al successo dello spettacolo; e solo lui dimostrava di avere, oltre alla competenza, il carisma e la pazienza per istruirli e portarli a cantare in breve tempo ad un livello artistico pari alle attese.
L’estratto manca delle note presenti nel testo Roberto Arcaleni “il Maestrino” (Scuola Grafica dell’IPSIA, 1995).