Durante la guerra, la vita di Gabriotti trascorse consuetudinaria tra gli impegni di lavoro e le molteplici faccende da sbrigare per la famiglia. Ma si celava ben altro dietro l’apparente ordinarietà della sua esistenza. Il vicolo cieco nel quale il regime era rimasto intrappolato scatenando la guerra lo aveva indotto a riprendere contatti riservatissimi con amici di sicure convinzioni antifasciste. Alcuni suoi viaggi a Roma, talvolta in compagnia di ignari nipoti per non dare nell’occhio, certamente nascosero appuntamenti con personaggi di un certo rilievo. L’amico eugubino Gaetano Salciarini, che nella capitale s’era visto con Alcide De Gasperi e Giuseppe Spataro, aveva accettato di fungere da collegamento tra i cattolici democratici umbri e i dirigenti nazionali; Gabriotti divenne un perno di questa prima rete organizzativa regionale, insieme allo stesso Salciarini e al perugino Carlo Vischia. Spataro lo aveva ben conosciuto sin dal tempo del partito popolare e lo stimava per la coerenza ed il coraggio dimostrati negli anni bui della dittatura; ne apprezzava il modo di agire riservato e risoluto, l’irrefrenabile vitalità nonostante la menomazione fisica, la schietta fede non imbrigliata da astrattezze o da ostentata retorica.
Il frutto di tale attività clandestina fu una lettera consegnata all’inizio di gennaio del 1943 da Gabriotti ad alcuni vecchi “popolari” della zona. In essa si rivelavano i positivi esiti dei primi abboccamenti per ricostituire un’organizzazione politica di matrice cattolica: “Abbiamo constatato come le defezioni siano state minime e come questo periodo di… letargo abbia irrobustito la volontà, liberandola anzi da scorie personalistiche e misoneistiche.” Quindi vi si tracciava l’identità di un nuovo partito “non confessionale”, ma “ispirato integralmente ai principi del cristianesimo”: “Questo deve avere carattere democratico spinto, ed (essere) a larga base da poter permettere ad esso l’adesione, oltreché dei vecchi amici, di quanti concordano nei principi di libertà e di rispetto della dignità umana, e (di) quanti, con sincerità, sono stanchi dei vecchi particolarismi ed alieni da ogni settarismo, in verità superato anche dai partiti più accesi. Un partito di centro fortemente e decisamente orientato a sinistra, da poter combattere con programma deciso, risoluto e realizzatore, l’estremismo comunista.” Esso si sarebbe ispirato “ai principi della Democrazia Cristiana e del Socialismo”, tenendo però per fermo quanto nel tempo indicato dai documenti pontifici.
I “modesti appunti”, attribuibili a Gabriotti, non intendevano essere altro che “una pietruzza per la ricostruzione del grande edificio sociale” che il fascismo stava trascinando alla rovina. Quasi vent’anni di dittatura non erano riusciti a sconfiggere quest’uomo, che si riproponeva con piglio battagliero, prospettava riforme radicali e spregiudicate e auspicava per la ricostruzione del Paese un’unità di intenti con gli altri partiti progressisti. La formazione di ispirazione cristiana da lui auspicata avrebbe dovuto coraggiosamente affermare la propria identità raccogliendo con orgoglio l’eredità più innovativa del partito popolare, ma proponendo una nuova denominazione che stimolasse i giovani alla partecipazione politica e nel contempo ne favorisse l’amalgama con gli anziani; inoltre avrebbe dovuto ribadire la laicità e la democraticità dello Stato contro ogni forma di totalitarismo, incluse le tentazioni integraliste che potevano emergere in campo cattolico. In queste convinzioni di fondo Gabriotti si dimostrava in sintonia con l’indirizzo auspicato a livello nazionale da Alcide De Gasperi.
L’estratto è una breve sintesi, senza note, del testo in Venanzio Gabriotti e il suo tempo (Petruzzi Editore, 1993).