Le vicende dell’autunno del 1943 lasciarono intuire che si sarebbe trattato di una lotta assai dura. Dovette subire un rinvio il previsto incontro dei democratici cristiani umbri per costituire ufficialmente il comitato regionale. Fu lo stesso Gabriotti a darne notizia a Roma a Giuseppe Spataro. Nella notte tra il 17 e il 18 ottobre la polizia aveva tratto in arresto a Perugia numerosi oppositori, tra i quali Carlo Vischia. Era stato così reciso il canale di comunicazione più diretto tra Gabriotti e l’ambiente antifascista perugino.
Ma la retata di metà ottobre non scompaginò del tutto le file dei democratici. Proprio in quel periodo Gabriotti incontrò il pretore Alberto Apponi, autorevole esponente del Partito d’Azione resosi da tempo irreperibile. Il tifernate gli parlò della formazione delle prime bande alla macchia e di aggregazioni clandestine anche nei centri urbani; lui stesso si era visto più volte con il promotore del nucleo antifascista della vicina Sansepolcro. In seguito a quel furtivo incontro, Apponi si convinse della necessità di costituire quanto prima a Perugia un comitato in grado di coordinare la lotta di resistenza.
Le autorità ordinarono anche il bloccaggio degli apparecchi radio, per impedire l’ascolto delle stazioni nemiche. Anche Gabriotti ascoltava abitualmente Radio Londra. Non ne faceva un gran mistero, nonostante che i fascisti considerassero la cosa alla stregua di un tradimento. I suoi atteggiamenti spregiudicati e la convinzione che stesse tramando qualcosa insospettirono i fascisti più accesi. Già a settembre avevano incluso il suo nome in una lista di proscrizione con altri sei oppositori. Di lì a poco lo raggiunse un mandato di cattura; insieme a lui dovevano essere arrestati Pellico Biagioni e il professore De Pinto. Una “soffiata” li mise sul chi vive e riuscirono a nascondersi. Poi l’ispettore di zona del Fascio Fernando Ricci, suo amico, promosse un incontro chiarificatore. Imputarono a Gabriotti di aver svolto attività antifascista dopo il 25 luglio; lui candidamente rispose che, essendo stato oppositore irriducibile durante tutto il periodo del regime non poteva certo divenirne un sostenitore dopo la caduta. La polizia si limitò a diffidarlo a non occuparsi più di politica.
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A Città di Castello Gabriotti continuava a ordire la sua trama cospirativa contro il regime e le forze straniere di occupazione. Incitava chi poteva ad andare alla macchia e stava vicino con discrezione alle famiglie di quanti si erano già resi irreperibili. Fu lui stesso ad accompagnare il nipote Giulio verso le alture di Sansepolcro, dove intendeva nascondersi; a Celalba passarono noncuranti vicino a un gruppo di tedeschi che si addestravano nel tiro di bombe a mano.
L’arresto, nel gennaio di quell’anno, dell’amico democratico cristiano di Gubbio Gaetano Salciarini, costretto a mesi di detenzione per la sua attività di oppositore, dovette indurlo ad una certa cautela. Ma Gabriotti continuava a mostrarsi un maestro nel destreggiarsi e nel mantenere buoni rapporti formali con le autorità. Un rapporto del questore di Perugia lo definiva allora persona “di buona condotta morale e civile”, con un passato di democratico cristiano, ma anche di risoluto avversario del “sovversivismo”. Per quanto lo tenessero costantemente d’occhio, quindi, non appariva ancora ai fascisti troppo pericoloso. Ma lo sottovalutavano.
Di tanto in tanto Gabriotti si recava a Perugia per consultarsi con gli antifascisti. In quel periodo ebbe modo di incontrarvi anche Alcide De Gasperi e Mario Cingolani. Il 12 aprile vi andò con l’intento di stabilire un più efficace coordinamento politico e militare tra la resistenza armata altotiberina e il Comitato di Liberazione provinciale. Immaginava che nel capoluogo vi fosse un’organizzazione capace di dirigere la lotta, invece notò con amarezza che il movimento mancava di un’adeguata struttura di comando e di un apprezzabile livello di coordinamento.
L’estratto è una breve sintesi, senza note, del testo in Venanzio Gabriotti e il suo tempo (Petruzzi Editore, 1993).