Gli attivisti cattolici dibatterono i temi del congresso nazionale del partito popolare. Il vescovo Liviero dedicò una nuova lettera pastorale all’impegno sociale dei credenti. La sintesi che ne fece “Voce di Popolo” contenne un severo ammonimento a non cedere a tentazioni estremiste: “Molti hanno creduto di provvedere a se stessi imbrancandosi nelle file rivoluzionarie, non volendo persuadersi di aver rinnegato con tale atto praticamente la loro fede”. Le necessarie riforme, concluse il periodico, dovevano essere prodotte in un contesto di armonia tra le classi sociali.
L’assemblea congressuale recepì queste raccomandazioni. Bollati dalla propaganda avversaria come alleati della borghesia e del capitalismo, i “popolari” tifernati dichiararono di volersi mettere con decisione “sulla via delle riforme reali”, ma presero chiaramente le distanze da ogni tendenza estremista, mirante, “anziché alla collaborazione delle classi, alla loro lotta”. La critica non riguardava soltanto i socialisti, ma anche le frange cattoliche più radicali, che avevano in Miglioli l’esponente di maggior spicco. Venne sottolineata l’inattuabilità di intese con il P.S.I., mentre si lasciarono aperte le porte per una collaborazione, anche se non sistematica, con i settori della borghesia meno ostili al programma dei cattolici.
Il dibattito fu vivace. Gabriotti, che solo pochi mesi prima auspicava “le più ardite” riforme, assunse posizioni di maggior cautela e si identificò nell’ordine del giorno approvato. Mentre gli iscritti vedevano in lui il loro leader, cominciava ad incrinarsi il suo rapporto con Giovagnoli, ancora segretario del partito. Non li divideva più solo il giudizio sulla figura di Liviero, ma anche delicate, e non meglio definite, questioni personali. A ciò si aggiunsero, a dire di Gabriotti, l’aperto contrasto sulla linea politica del partito, con Giovagnoli a sostegno delle tesi estreme sulla distribuzione delle terre ai contadini, e l’imbarazzo per le strette relazioni del sacerdote con noti esponenti della massoneria.
La sezione tifernate si allineò pertanto con le posizioni moderate che prevalsero al congresso di Napoli, dove il centro del partito, rappresentato dai sostenitori del segretario don Luigi Sturzo, emarginò l’estrema sinistra favorevole a scelte radicali di ripartizione della terra ai contadini e a prospettive di collaborazione con i socialisti. La linea di prudente riformismo prendeva forma in un momento storico in cui si rendeva necessario l’apporto del P.P.I. per garantire un governo al Paese. I “popolari” finirono con il sostenere i ministeri Nitti e Giolitti, vincolando l’entrata nel governo all’accoglimento di alcuni punti del loro programma.
L’estratto è una sintesi, senza note, del testo in Venanzio Gabriotti e il suo tempo (Petruzzi Editore, 1993).